Ciò che si è spento per incapacità: la Confindustria

Il terzo articolo di riflessione sulla Confindustria italiana vuole cogliere un altro aspetto rispetto ai precedenti: la competenza dei vertici sia nazionali che locali della Confindustria italiana e quindi anche lo stile d’organizzazione.

Questo spunto non deriva solo da recenti esperienze vissute sul campo, ma anche da semplici considerazioni:

a) un’azienda al giorno fallisce;

b) la globalizzazione non è stata ben applicata lasciando che la delocalizzazione impoverisse il Paese;

c) la moneta “euro” è stata una bella idea ma applicata in forme pessime;

d) la generalizzata ignoranza di base riscontrata nel sistema aziendale nazionale, soprattutto nella capacità di relazionare con il mercato, uno dei punti, quest’ultimo direttamente riscontrato nell’altissima dirigenza della Confindustria a Roma.

Al tutto si aggiunge quell’antistorico atteggiamento degli uffici studi della Confindustria nel mantenere segreti (per i soli paganti) le analisi sulle tendenze di mercato, le quali, una volta studiate non è che siano “la fine del mondo”, ma semplici ragionamenti spacciati come un faro nella notte nella comprensione di quanto avverrà. Quanto stupisce nella Confindustria è anche la prosopopea nell’atteggiamento verso il Paese, vendendo letteralmente una presenza a cui  manca la sostanza. Perché il sindacato degli imprenditori si è ridotto in questo modo?

Per cercare di dare una risposta congrua a questa domande, serve osservare il sistema delle imprese italiane che sono sostanzialmente “padronali” ovvero di stampo e conduzione familiare. L’impresa padronale rappresenta ancora la fortuna ma anche la maledizione del sistema industriale italiano. I difetti dell’impresa padronale sono oggi più importanti dei suoi pregi per un semplice motivo: il collasso del mercato interno nazionale e un livello di disoccupazione (grave ma ancora non in grado di destabilizzare il Paese). Comunque emerge un sistema produttivo industriale incapace di comunicare con il mercato (scrivi a un’azienda e neppure ti rispondono – non sanno farlo) affaristicamente attivo, ma privo di uno schema di riferimento (vedi il flagello della delocalizzazione inflitto alla Nazione) e superficiale (vedi la valenza sulla Russia, ad esempio, senza rendersi conto che l’assenza di democrazia rende il mercato instabile, ragionamento che si replica in Cina e nei paesi arabi).

Considerando il sistema imprese sotto questa luce, sicuramente una delle responsabilità è imputabile alla Confindustria i cui leader e manager non emergono da un percorso formativo adeguato, ma sono anch’essi imprenditori (spesso padronali) impegnati in uno scambio di poltrone tra di loro come fosse un gioco, mascherato dall’elezione del leader massimo: il Presidente di Confindustria.

A questo punto la domanda più importante: come si vorrebbe la Confindustria del futuro? Semplice! Un ufficio solo e non più così numerose sedi locali, bensì una realtà singola e accentrata a Roma o forse meglio a Milano, con una decina di persone professionalmente preparate e non di nomina, che si appoggi a un call center di 10-15 stagisti. In pratica una redazione. Il compito di questa nuova Confindustria, il cui Presidente sarebbe eletto ma non il vice (un economista affermato a contratto) e così gli specialisti, è certamente quello di “pompare” idee nuove nel Paese. Dovrebbe studiare e pubblicare, gratuitamente e per tutti, idee, modelli, concetti, opinioni, studi funzionali all’industria italiana.

Ad esempio, chi saprebbe discutere di reshoring in Italia considerato che appare ancor oggi come una parola sconosciuta, mentre rappresenta il successo del sistema economico statunitense negli anni tra il 2010 e il 2015?

Nel caso qualche imprese sentisse il bisogno di sostenere quest’ufficio, ovvero la nuova Confindustria, lo faccia, detraendo dalle tasse la donazione.

Ovviamente quanto qui scritto, soprattutto in ambito di prospettive è da ritenere assolutamente fantascientifico perché nessuno, in Italia e quindi anche nella Confindustria, è disponibile a cedere un potere di carta in un’Italia che brucia.

Confindustria