Ma la concorrenza che fine ha fatto?

Dal nostro corrispondente all’estero, Giovanni Carlini

La Redazione di GREEN UP si è recata in Arizona – USA, regno delle piante grasse. La domanda che ci si pone è semplice: come possono tanti garden coesistere con lo stesso prodotto, nella medesima area e allo stesso tempo?

La domanda che guida questo studio è stata già fatta chissà quante volte e in centomila altri posti, però resta sempre attuale. Esistono tanti garden con un bassissimo livello di differenziazione commerciale, che comunque riescono a vivere e crescere nel tempo: ma come fanno? Però il quesito è ancora più audace; se bene o male si riesce a vivere senza inventarsi chissà che, per rendersi “originali”, vale la pena investire per apparire diversi, quando in fin dei conti ci si mantiene comunque sul mercato?
In una fase riflessiva dell’economia, espressa nel calo della propensione al consumo dei clienti, una domanda di questo tipo potrebbe non far dormire la notte i gardenisti.
Negli Stati Uniti il problema è stato posto dalla stampa specialistica e ci si chiede fino a che punto l’immagine giova al fatturato, perché un limite c’è e va identificato di volta in volta. Questo significa tradotto in percentuale, che oltre un certo livello, la specializzazione è denaro sprecato, in quanto non si traduce in fatturato. Insistere in investimenti ad oltranza sarebbe “sciocco”; al contrario necessita uno studio, caso per caso, per comprendere quando fermarsi.
Ciò non toglie, quindi al di là della difficoltà del calcolo fatto sul singolo negozio di garden, che analizzando le condizioni di concorrenza, la tipologia di clientela, l’immagine acquisita nel corso degli anni, l’estensione dello spazio espositivo e il numero dei reparti con qualità/quantità di prodotto e spessore del servizio reso, ogni impresa-garden dovrebbe sempre calcolare questo confine, per evitare “spreco di denaro”.
BOX 1 – Criteri di calcolo per la soglia di non profittabilità dell’investimento in un garden.
Il concetto è piuttosto ampio e conviene rivolgersi a specialisti del settore. Non esistono delle formule precise da applicare. Serve sperimentare e monitorare con continuità “l’elasticità” dell’offerta, ovvero la variazione del comportamento del cliente, al modificarsi del prezzo. Esiste un punto, per ogni prodotto e segmento di mercato, oltre il quale, per quanto si modifichi il prezzo, in un senso come nell’altro, non ne consegue alcuna reazione da parte del cliente, che proseguirà a comprare o ignorare le opzioni offerte, seguendo solo le sue effettive necessità. Ebbene quel punto indica la barriera oltre il quale ogni investimento successivo, ha rendimenti sempre meno che proporzionali, quindi rappresenta la barriera superata la quale ogni investimento è non produttivo. Per ulteriori approfondimenti conviene prendere un testo di economia cercando sull’indice “elasticità della domanda”, oppure rivolgersi direttamente in Redazione.
Rientrando sul motivo per cui questo studio è pubblicato, chiediamoci fino a che punto inseguire la specializzazione di prodotto e se ne valga la pena.
Come già pubblicato su GREEN UP nella precedente corrispondenza dagli Stati Uniti di questo 2010, delle 911 chiusure di garden subite nel 2008 e tra le 3.702 del 2009 in Nord America (Canada e Stati Uniti) solo 1 era un garden specializzato, tutti gli altri dei semplici “generalisti”.
Già questo dato pone un punto fermo nell’analisi: se non si è specializzati si rischia la chiusura in una fase di contrazione dei consumi. Chiarito questo primo concetto, fino a che punto conviene spingersi nella specializzazione?
Per essere pratici seguendo lo stile di GREEN UP e quindi porsi in termini di utilità verso il lettore, siamo andati a chiederlo a un gardenista americano che vive a Phoneix in Arizona; nella sua area sono attivi 13 diversi garden di svariate dimensioni, tutti concentrati sulle piante grasse. Nessuna di queste imprese ha chiuso nel periodo 2007-2010; tante erano altrettante sono ancora, senza che però se ne aggiungessero.
Domanda: Grazie per aver concesso questa intervista a GREEN UP signor Richard Eymann, titolare della “Desert Nursery”di Phoenix. Per avere un ordine d’idee, a quanto ammonta il suo giro d’affari e questo come si colloca nel contesto degli altri operatori attivi su questo mercato con il medesimo prodotto?
Eymann: io sono un piccolo contadino, fatturo mediamente poco meno di 1 milione di dollari all’anno e commercializzo piante grasse da appartamento e giardino. I miei clienti sono principalmente privati e ristoranti della zona. In linea di massima si tratta di una clientela fedele, che costantemente ripete i suoi acquisti spaziando da un genere all’altro di piante grasse, arricchendo o sostituendo la loro attuale dotazione; quindi si parla di un’utenza “amatoriale” che trova nella pianta non solo un vegetale, ma uno stile di arredamento. Se lo scontrino medio è di 25 dollari per acquisto, ho visto che il cliente spende all’anno, all’incirca sui 170 dollari nel mio garden. Non sono grandi cifre però mi consentono di agire sul mercato, quale loro fornitore di fiducia. Il punto, secondo me, nella formazione del fatturato non è nella spesa pro-capite, ma nel numero di visite che ricevo durante l’anno.

Domanda: sta esprimendo dei concetti molto professionali, complimenti. Si è mai chiesto perché un cliente ha scelto lei e non uno degli altri 12 gardenisti specializzati in piante grasse, che sono attivi in quest’area?
Eymann: gli altri colleghi fatturano entro un’oscillazione che si dipana tra i 0,5 milioni di dollari e i 14, ne consegue che io non dò fastidio a nessuno. Riusciamo tutti a vivere perché in costanza di prodotto ci sono importanti elementi di differenziazione che derivano da:
– chi produce in proprio (è il mio caso) e chi solo commercializza;
– il tipo di tratto che si ha con la clientela in negozio;
– il tipo di relazione a distanza che viene mantenuto con il cliente, quanto ha lasciato il garden con o senza acquisti.
Domanda: la prego Signor Eyman, possiamo analizzare più a fondo ogni singolo passaggio di quanto ha appena detto, perché qui è il cuore della nostra intervista.
Eymann; Va bene, andiamo con ordine. La produzione propria, rispetto la rivendita commerciale è un fattore critico, perché nel mio caso, siamo una famiglia che gestisce l’impresa, il che è un handicap che ci fa però vivere. Mi spiego. Produrre significa tempo che non dedichiamo alla vendita, però ci consente anche di ricevere ordinazioni specifiche da soddisfare o comunque d’offrire una sorta di “personalizzazione” al cliente che ritorna così più volte. Gli europei ci chiamerebbero degli artigiani del florovivasimo. Questo aspetto piace sempre di più alla clientela, infatti negli ultimi 3 anni abbiamo ricevuto una crescita di fatturato nell’ordine medio dell’8,7% quando questa tendenza non è stata la stessa per altri, negli USA che invece hanno subito dei forti cali fino al -40%
Quindi produrre in proprio “paga” lo sforzo, anche se l’ideale sarebbe per un garden che ha saputo crescere oltre il limite della famiglia attestandosi intorno ai 10 dipendenti (i 4-5 familiari a cui si aggiungono altrettanti assunti). Qui però si apre il problema del costo del lavoro che da noi è “mitigato” dall’immigrazione clandestina quotidiana messicana. Quando un americano in regola costa 7,5 dollari e un messicano si accontenta di 4 dollari all’ora, lavorando solo quando c’è necessità, il confronto “non ha storia”.
Sul tratto verso la clientela credo di poter aggiungere poco nel senso che noi lo distinguiamo tra quello praticato all’interno del negozio e fuori. Quando il cliente è con noi ci sforziamo di dare dei parametri, su ogni prodotto, in termini di:
– a cosa serve l’acquisto (dare un senso non tanto alla sola spesa, ma al tipo di pianta dove essa va inserita. Un cactus di un metro e mezzo, ad esempio, ha un ruolo di presentazione e “d’imponenza” se vogliamo, per cui rientra nel bisogno d’apparire. Diversa è invece la piantina grassa posta vicino al computer, con lo scopo solo d’assorbire le emissioni magnetiche scaturenti dalla macchina)
– cosa la pianta è in grado di cambiare se inserita in un contesto anziché un altro (qui si parla di terrazzo anziché interni all’abitazione, oppure di parco condominiale opposto al giardino di una scuola come un altro ente pubblico) Questo aspetto è “strategico” in quanto giustifica l’acquisto motivandolo. Se il cliente non è convinto che con la pianta grassa, acquistata da noi qualcosa cambierà nella sua casa, non tornerà più e io ho perso un cliente!
– un serio rapporto costo-qualità, che dia un senso al prezzo che chiediamo. Anche questo aspetto è particolarmente “gettonato” e il cliente ascolta con attenzione, calcolando indicativamente i margini con cui lavoriamo, in genere accettandoli perché ritenuti “corretti”. Se questo terzo passaggio è condiviso allora il cliente tornerà, permettendomi di restare sul mercato.
Per quanto concerne l’assistenza fornita all’esterno del negozio, probabilmente sarò banale, ma utilizzo internet attraverso il sito della mia impresa, comunicando con newsletter novità, prezzi e motivazioni per festeggiare qualcosa, al fine di fare “clan” e aiutare i clienti a sentirsi parte di un gruppo, che non si limita al mero acquisto di una pianta. Ecco che nasce la festa d’autunno, quella d’inizio estate, dell’apertura delle scuole a metà agosto, del 4 luglio etc.. Con le “feste” e le connesse promozioni di prezzo il fatturato, nel mio caso, vale il 25% in più.
Domanda: tra le diverse specie di piante grasse che lei produce quali sono quelle che vende di più?
Eymann: faccio 2 premesse. Le piante di mia produzione che vendo ammontano all’89% del totale del mio fatturato e le espongo, unitamente a quelle che compro, nel sito aziendale: www.phoenixdesertnursery.com Inoltre, in genere, ciò di cui abbiamo fin qui parlato sono chiamate “piante grasse” quando in realtà, a voler essere precisi, si tratta di “piante succulente” di cui, nessuno lo sa, anche la vite appartiene a questa specie.
Chiarito questo aspetto alla voce “cactus” ad esempio, nel mio sito, ci sono in tutto 31 specie diverse di cui io ne produco 8, le restanti le acquisto dal libero mercato su richiesta.
La succulenta che vendo con maggiore facilità e che copre il 40% del mio fatturato è la echinocactus grusonii (Golden barrel cacti) a 8 dollari il gallone (1 gallone sono 3,8 litri)
Nel complesso la mia vendita (inclusa la produzione) riguarda:
– alberi (da me prodotti al 100%) e che rappresentano il 13% del fatturato;
– cactus (come già indicato, valgono il 45% del fatturato tra produzione e acquisto);
– arbusti (di mia produzione, pari al 5% del fatturato)
– agave (27 specie di cui prodotte da me solo 4. Il prodotto che più vendo è la agave decipiens – false sisal – venduta per il 7% del fatturato)
– aloes ( 11 specie, di cui prodotte 1 – aloe vera, yellow flowers- che vale il 12% del fatturato)
– chollas cylindropuntia species (11 specie di cui prodotte 4 che coprono il 6% del fatturato)
– yucca ( 18 specie di cui 3 prodotte per un 8% di fatturato)
– altro per l’4% di fatturato