Il caso americano. Il prigioniero da Parkinson

The parkinson prisoner

Colloquiando con 80 università statunitensi, nelle rispettive facoltà di sociologia, in merito alla teoria sociologia connessa al tema de Il prigioniero da Parkinson, emerge come lo studio del dolore o comunque della malattia sia ancora poco approfondito.

Di fronte alle intense ricerche svolte sulla sociologia della famiglia, della fecondità e dei temi di genere, (uomo e donna con annesse relazioni e inserimento sociale) non è stata ancora maturata una adeguata coscienza sulle trasformazioni che subisce la vita affrontando il dolore in malattia e vecchiaia. Lo scopo della sociologia è quello di comprendere come cambia il comportamento umano in presenza di determinati fattori. Certamente la religione e il senso religioso, hanno una grande importanza nel modo di relazionare degli uomini e delle donne tra di loro e verso la divinità (vedi tutte le guerre di religione sofferte negli ultimi secoli e a tutt’oggi la presenza del fondamentalismo nella vita moderna). Infatti, in ogni organico di tutte le facoltà di sociologia, è sempre presente uno o più professori dedicati alla sensibilità religiosa e ai suoi effetti sulla società. Questo vale anche per la sociologia economica, la fertilità, il lavoro. Spesso si notano delle cattedre dedicate alle aree emergenti del mondo e poi? E poi basta. Il dolore non è contemplato, al momento, come causa di modificazione del comportamento umano.

E’ anche vero che il primo impatto della sociologia con la malattia, almeno in Italia, relativamente al Parkinson si è avuto appena e casualmente, nell’ottobre scorso, 2014 e già ci si è divisi in 2 branche, una dottrinale impegnata nello studio della patologia dall’alto, da dietro una scrivania (quella finanziata e ufficiale) e l’altra dal basso, faccia a faccia con i malati (non finanziata e condotta con caparbietà). E’ su questa seconda branca della ricerca sociologica per il Parkinson, che si concentrano le speranze per un miglioramento della qualità di vita dei malati, oggi visti come prigionieri, da cui appunto il nome alla teoria: Il prigioniero da Parkinson.

Senza spendere troppe parole sull’ovvio, è inequivocabile che la malattia e il dolore hanno una potente influenza sulle relazioni umane, il cui mancato studio esprime una tendenza culturale che esclude il brutto, la morte, la sofferenza dalla considerazione ordinaria e consumistica.

C’è ancor di più nella ferrea volontà da parte della medicina di monopolizzare ogni aspetto connesso con la sanità in genere, dove sono stati fatti passi in avanti dalla psicologia, pur restando limitati alla personalità del malato trascurando gli effetti familiari e sociali dove si concentrano le peggiori conseguenze.

In nome della civiltà è quindi necessario che si apra lo studio sociologico della malattia, soprattutto applicato a quelle patologie di lunga durata che cambiano il comportamento delle persone e delle famiglie, considerando l’alto costo monetario per le cure e la cessazione d’emozioni tra partner. Su quest’ultimo aspetto si è concentrata una parte importante della teoria sociologica nota come Il prigioniero da Parkinson.

Dagli studi svolti, il prigioniero solitamente si vergogna del suo stato e in questo si limita nella relazione affettiva. Non solo, nel nascondersi/limitarsi, non educa a sua volta il partner, che resta privo d’informazioni su come aggiornare il suo comportamento affettivo in base alle nuove necessità del prigioniero. Dalla ricerca emergono anche casi all’opposto d’iper reattività sessuale, realizzati comunque da personaggi con gravi problematiche di relazione di coppia, che cercano altrove quanto non sanno più ottenere dalla loro unione affettiva.

A ben vendere, nella malattia si aprono una serie di comportamenti, reazioni e sofferenze che sono comuni nella relazione intima che trovano un punto di vertice nella malattia (da cui appunto il termine di prigioniero, come se si fosse incastrati in un ruolo da subire e da cui si vorrebbe evadere senza averne gli strumenti adeguati).

In nome della qualità di un buon vivere anche in malattia e nel dolore, che sono parte integrante dell’esistenza umana, è sano che la sociologia si assuma la sua responsabilità, studiando modelli di comportamento adeguati: servono cattedre nelle nostre università dedicate alla sociologia della malattia. In pratica stiamo parlando di Pain sociology prendendo le mosse dalla nota teoria chiamata Il prigioniero da Parkinson.

Auguriamoci buon lavoro.

The parkinson prisoner