The Prisoner of Parkinson – Il prigioniero da Parkinson. Nuove strade nella cura di un male che imprigiona uno spirito sano. Teoria sociologica studiata dal ricercatore sociale, prof. Giovanni Carlini

 

The Prisoner of Parkinson: introduzione a una teoria sociologica innovativa 

The Prisoner of Parkinson esprime la nuova posizione della scienza vero la malattia di lungo corso. La teoria nasce dallo studio del Parkinson, allargandosi successivamente alle altre sofferenze che affliggono le persone nella loro vita. Il Parkinson è un male antico che viene curato con tecniche ancora più vecchie. Il ragionamento si può estendere anche all’Alzheimer. In questo studio, che si basa su un’impostazione squisitamente sociologica e non medica, si ritiene che la malattia nervosa sia una prigione che incapsula uno spirito vivo. Ecco da cosa nasce il titolo alla ricerca: The Prisoner of Parkinson. E’ possibile far evadere dei prigionieri a patto che effettivamente lo vogliano? Il dubbio è d’obbligo perché, come verrà spiegato in seguito, il vero ostacolo a una cura sociologica del Parkinson, da affiancare a quella medica (prevalente) e psicologica, sono proprio i prigionieri (malati). Il prigioniero non vuole più lasciare la prigione, ovvero quel male che lo attanaglia.

Ovviamente da parte della Medicina ufficiale c’è una presa di posizione molto rigida, verso la teoria The Prisoner of Parkinson, anziché di collaborazione, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi idea di concorrenza, presunta o reale che sia. Il regime di monopolio nella gestione della sofferenza ha la sua importanza. Purtroppo però nessuno ha ancora scoperto e valorizzato la capacità interna alle persone di reagire ai propri mali e malattie. Ecco dove la nuova concezione sociologica, che si concretizza in The Prisoner of Parkinson, assume importanza. Il percorso concettuale che sviluppa la nuova teoria è dal malato al paziente (quanto ha svolto la medicina) quindi al prigioniero (qui la novità) per una persona sana che vuole evadere da un corpo malato. Nelle malattia di lungo percorso, nei primi stadi (almeno per un decennio certo) il prigioniero, ex paziente, è veramente una mente sana in un corpo malato. Va aiutato! The Prisoner of Parkinson sconta però non solo l’ostilità della medicina ufficiale, ma anche quello delle Associazioni di malati. Su tutto si aggiunge la diffidenza del paziente tradizionale che oggi è nella mentalità corrente è da compatire come accudire, anzichè scatenare nella reazione. The Prisoner of Parkinson, a questo punto, diventa la punta di lancia di un cambio di mentalità che considera la volontà del prigioniero la prima condizione per gestire dignitosamente la malattia. Basta essere ospiti del male!

In questi termini, con l’ostilità di fondo del paziente che preferisce compatirsi anziché reagire e il blocco della scienza, che non gradisce altri punti di vista, l’apporto della sociologia per garantire una degna qualità di vita, anche ai malati di Parkinson e Alzheimer resta bloccato.Però, scavando nella ricerca, emerge che “il dolore” non è stato sufficientemente studiato come atto modificativo del comportamento. Mi spiego.

Le persone che soffrono, in particolare su un lungo tratto della loro vita, modificano il modo di relazionarsi per cui vorrebbero dire/essere/fare delle cose che in realtà non riescono, ottenendo spesso il contrario di quanto voluto. Altre volte invece nasce l’invidia verso i sani e un macelato senso di vittimismo verso gli altri. Tutte queste dinamiche non state ancora approfondite nella dinamica sociologica per cui dovrebbe esistere una nuova materia: The Pain sociology – La sociologia del dolore. A questo punto il quadro cambia completamente, spingendosi oltre i capricci dei malati e la gelosia della scienza, perché indagare sul “dolore”, benchè emergente da una lunga sofferenza nel tempo, coinvolge una platea enorme di persone.

Questo breve saggio ha una missione: come vox clamanti in deserti, desidera spiegare alle persone che soffrono, che ci sono gli strumenti per aggredire “il male che si incunea dentro di noi come malattia”. Il guaio è che non basta più prendere una pillola per non sentire più nulla, ma serve una disciplina individuale (ecco il punto di rigetto dei malati di Parkinson italiani) per riabilitare il meglio che c’è dentro di noi, confermando ancora la dignità d’umani sulla malattia. Serve quindi leggere di più, amare di più, sentire di più, capire di più, dipingere di più, fotografare di più, viaggiare di più, passeggiare mano nella mano di più, litigare di meno e pensare di più, per vivere di più. La medicina resta potente, la psicologia necessaria, ma a questo punto serve anche la sociologia del dolore per migliorare la relazione sociale di chi soffrendo uccide la sua umanità. Ecco perché è nata la teoria sociologia del Prigioniero, The Prisoner of Parkinson.

Ora serve una precisazione cogliendo le troppe critiche che sono state elevate a questa teoria. La sensazione è che sia stato consumato un “tiro al bersaglio” da parte dell’associazione Parkinson Italia alla teoria. E’ chiaro che nello sviluppo di ben 5 degradazioni nella malattia, gli stadi finali non presentino reattività alla teoria. Non serve scomodarsi per questo. Il concetto è un altro. The Prisoner of Parkinson è stata scoperta, applicata e descritta, per chi sta per ammalarsi o si ammalerà o si trova nei primi 3 stadi della malattia. E’ in quella fase, non augurata a nessuno, che la persona può organizzare una reazione alla condanna per malattia. E’ quando intuisce che potrebbe affogare nel catarro, che il paziente ha bisogno di questa teoria. Allora sì che sarà possibile educare il partner ai nuovi bisogni, rinnovando e ringiovanendo il rapporto di coppia. Per chi è già malato, la questione è quanto le capacità cognitive sono state colpite (da cui lo sviluppo su 5 livelli della malattia).

Concludendo, la teoria è valida e utile per chi vuole e sente il bisogno di reagire alla malattia. Molti pazienti si sono lamentati per queste idee perché non vogliono reagire, ma essere compatiti. Il punto di vista dei degenti è comprensibile, ma non accettabile. La malattia è configurabile come una guerra senza esclusione di colpi. Infatti in queste pagine si parla di militarizzazione della risposta al male. Idee che hanno dato molto fastidio. In un mondo in pratica “viziato che compatisce”, emerge una militarizzazione della risposta al male che non può essere capita e appezzata. Resta però l’ultimo passaggio per salvare dignitosamente quello scadimento che porta a morte il paziente. Una malattia senza fine (che giunge alla morte) può essere vissuta facendosi compatire o reagendo. Parole dure ma necessarie. Non è stata ancora lanciata una scuola di medicina e sociologia che rilanci la dignità di una reazione alla malattia.

Ecco perché culturalmente The Prisoner of Parkinson non è stata ancora condivisa. Ovviamente tali riflessioni non vogliono offendere nessuno, ma stimolare ogni malato a reagire, direi evadere dalla sua prigionia. Invece va constato come gli strilli e l’offesa come lo strapparsi le vesti abbia contraddistinto l’ambiente del Parkinson ufficiale italiano. Fra 3000 anni, coloro che non vogliono capire saranno scomparsi, ma le malattie di lungo corso ci saranno. Questi appunti sono scritti per quelli che, benchè malati, vorranno reagire. Quanto segue sono diversi studi pubblicati sulla teoria The Prisoner of Parkinson ora raccolti. Certamente leggendo compariranno più ripetizioni di concetti, ma non importa, perché necessari alla “stratificazione” delle idee innovative.

 

Quando la Sociologia è silenziosa

L’importante è la salute! Questa frase, particolarmente condivisibile, non è più vera. Il mondo scientifico e anche i malati non accettano spunti, idee e consigli che non pervengano esattamente dall’interlocutore abituale, indipendentemente dalla bontà del messaggio. Si conferma come il malato sia di fatto un prigioniero. A questa limitazione contribuisce il mondo sanitario, monopolizzando ogni opportunità, il che inibisce la formazione di una solida massa d’idee ed esperienze che dovrebbe trovare posto nella sociologia del dolore; una materia che ancora non esiste, ma se ne sente la necessità da migliaia di anni. A questo punto si verifica un fatto nuovo: il prigioniero da Parkinson si costruisce la sua trappola

Lo studio nasce da due diverse esperienze. La prima è maturata dall’osservazione del comportamento dei malati di Parkinson in Italia e dalla loro generalizzata ostilità verso qualsiasi novità. Tale diffidenza è specifica per chiunque non provenga esattamente dal mondo medico-santario.

La seconda dall’atteggiamento delle facoltà di sociologia (ne sono state intervistare 83) nelle università americane. Entrambi questi aspetti, non collegati tra di loro, ma di fatto l’uno in correlazione con l’altro, producono un’arretratezza nella gestione del benessere del malato da parte dell’intera struttura assistenziale, sia ospedaliera sia familiare. Si configura in questo modo una trappola nella quale lo stesso malato si chiude, convivendo nella malattia. Così è possibile rivivere le stesse condizioni già studiate e note come “sindrome da Stoccolma”.

Partendo da tali considerazioni, unite alle ricerche già note nel passaggio da malato a paziente del Prof. Milton H. Erickson, quindi nel trattamento riabilitativo dei prigionieri americani rientrati in Patria dal Vietnam e infine da considerazioni emergenti dalle tecniche di programmazione neuro linguistica, si definisce la teoria sociologia al Parkinson, meglio nota come The Prisoner of Parkinson. In questo contesto si riscontra sia l’ostilità dei malati di Parkinson (prigionieri) che non riconoscono nel sociologo un interlocutore, che la disarmante risposta delle facoltà di sociologia americane non interessate ad aprire un filone di ricerca e studio sulla sociologia del dolore. Praticamente è come dire che se esiste la sociologia del lavoro, come della famiglia, della devianza, della sessualità (sta muovendo i primi passi in questi ultimi anni) militare, economica, di genere e di riproduzione e molte altre, compresa quella sanitaria, il dolore non è riconosciuto, al momento, come un evento modificativo del comportamento umano. Mi spiego.

Ogni insegnamento sociologico descrive un particolare evento sociale che ha indubbie ricadute sul comportamento della comunità. Al momento, non pare che il dolore sia tra questi, ovvero un fatto in grado di cambiare il comportamento delle persone. Quel che è peggio è che dalle università escono sia dai corsi di medicina sia di sociologia, studenti che non hanno introdotto nelle loro sensibilità “il dolore” come evento sociale capace di modificare il comportamento umano. Quest’analisi, applicata al mondo universitario, nasce dallo studio dell’atteggiamento tipico del malato di Parkinson studiato in Italia. Si tratta di un personaggio che chiudendosi in se stesso sia dalla vergogna sia dall’astio verso gli altri nel subire “un’ingiusta condanna a vita”, non educa il partner e la famiglia ai suoi nuovi bisogni fratturando gli affetti. Sistematicamente, in ogni caso studiato, il prigioniero, soffre d’insoddisfazioni per mancati comportamenti adottati dal partner o familiari che “non capiscono”, senza con questo essere stati educati dal prigioniero ai suoi nuovi bisogni e questo per vergogna e rabbia.

Ecco che uno degli epicentri della qualità di vita del prigioniero non è più dentro di sé nell’accettare e convivere con la malattia (terreno tipicamente gestito dalla psicologia) oppure nella lotta al morbo (cui risponde la medicina) ma nella reazione “militarizzata”, forte di una disciplina della risposta che il prigioniero dovrebbe attuare, smettendo di vergognarsi, per passare a una fase attiva e sociale. Serve la sociologia del dolore. L’assenza di un ordinato studio del dolore al fine di migliorarne la qualità di vita quotidiana, imprigiona ancor di più i malati lasciandoli senza speranza nella galera della malattia. Chi tra loro, seguendo personali e non sostituibili attitudini, appositamente valorizzati, (carisma) si pone in forma di contrapposizione al male, reagendo con strategie disciplinate e costanti (militarizzando la reazione) godendo della presenza virtuale e fisica di altri (anch’essi malati che sani) entrando nel merito della risposta fisica al male, attraverso una massiccia reazione emotiva (sociologia della sessualità) transita dal solo essere malato allo stadio evoluto di prigioniero da Parkinson.

 

Dove si applica la sociologia del dolore 

La malattia è uno stato d’alterazione della sanità di una persona. Finchè si tratta di un breve momento che potrebbe anche durare uno o due mesi, non si può dire che il comportamento del paziente si modifichi in forme importanti.

Al contrario, quando la patologia diventa cronica o di lunga durata, come addirittura capace di cogliere la restante parte della vita, il comportamento del prigioniero, della famiglia, lavoro e altro, subiscono un’importante modificazione radicale, generalmente in senso negativo se osservato dal punto di vista del paziente (nervosismo, disperazione, distacco, vergogna, isolamento, invidia, acidità verso “i sani”: in pratica un anticipo di morte sociale). Con queste considerazioni emergono 3 aspetti clinici per studiare la stessa malattia di lunga durata che sono:

  • quello medico, prettamente fisico che è ovviamente il più importante e immediato;
  • quello psicologico che dovrebbe insegnare al singolo prigioniero (malato) a convivere con la malattia;
  • quello sociologico che studia l’interazione tra prigioniero e la famiglia, quindi il lavoro e gli altri. In ciò si punta direttamente alla qualità di vita. Il segreto consiste nel considera la relazione sociale un passaggio insostituibile della riabilitazione nervosa del prigioniero.

Oggi il prigioniero si conferma tale, vittima di se stesso, nel momento in cui scatena una gratuita quanto singolare ostilità verso una nuova figura, il sociologo. Questo ricercatore è impegnato nel migliorare la vita del prigioniero e dei suoi rapporti familiari come lavorativi. Tale ostilità, in realtà più che essere un parto originale del malato, deriva dalla considerazione della sociologia come materia “povera” rispetto alla psicologia. Pesa anche l’inserimento negli organici universitari nei termini di “scienza delle libere arti” (così a volte è definita la sociologia).

Al di là della sottostima della sociologia per il benessere delle persone malate, che potrebbe anche rimanere un discorso accademico, desta grande sorpresa come siano gli stessi malati a discriminare la fonte delle novità che ricevono. Detto meglio, il malato è disinteressato alla novità (rivelandosi così estremamente conservatore, come del resto i bimbi piccoli) se non dovesse pervenire dal tradizionale interlocutore (la medicina) indipendentemente dalla bontà o meno del messaggio. E’ questo il caso delle intossicazioni da farmaci! Al malato non interessa la bontà del messaggio o l’annessa sperimentazione, solo l’autorevolezza della fonte. E’ già accaduto osservare come il malato sia molto interessato al curriculum del ricercatore anziché alla proposta, per quanto possa essere semplice e diretta nell’applicazione. Ecco come il paziente, chiudendosi da ogni prospettiva, vuole restare prigioniero di se stesso e della malattia senza possibilità d’evadere. Infatti per evadere serve essere prigionieri.

Quanto sino ad ora studiato sui malati di Parkinson in Italia e su qualche prigioniero che sta reagendo al male, s’inquadra nella civiltà e dignità umana, che tutti noi dobbiamo verso chi soffre. Ecco che l’istituzione di un corso di studi e ricerca sulla sociologia del dolore, nelle facoltà di medicina e sociologia, non serve solo a rendere più attuale la materia di sociologia al servizio dell’uomo, ma coglie un bisogno essenziale della persona: la civiltà.

 

Le nuove idee sul Parkinson – The Prisoner of Parkinson 

Su un argomento così drammatico potremmo scrivere tanto. La scelta che questo studio vuole fare è per un’estrema concretezza, ma non per questo essere superficiale. Ne consegue che l’esposizione avverrà per punti.

 The Prisoner of Parkinson

Chi sono 

Sono un sociologo, per cui il mio studio è concentrato sul comportamento umano. Con diversi titoli ed esperienze sia di vita sia professionali, solitamente connetto tra loro aspetti che apparentemente non avrebbero una diretta ragione.

E’ il caso del “dilemma del prigioniero” che ho formulato e sviluppato. Mi spiego. Mentre la Signora “x” mi stava educando al suo dolore, narrandomi la vita che ha dovuto sopportare afflitta dal male, mi è parso intuitivo collegare le sofferenze dei prigionieri di guerra americani in Vietnam. Non solo. La Signora “y” discutendo delle mie idee afferma: hai presente i cartoni animati con gatto Silvestro e Titty? Il canarino che vive sereno nella sua gabbia, vorrebbe essere liberato, ma chi è in grado d’aprire la porticina è sia liberatore sia il cattivo. Noi malati di Parkinson, afferma sempre la Signora “y” che mi ha educato, viviamo nella gabbia e ci vogliamo inconsciamente restare.

Questi profondi ragionamenti, intuitivamente portano sia alla “sindrome di Stoccolma” (comune sorte tra ostaggio e terrorista) che all’esperienza del prof. Milton Erickson, statunitense, 1901/1980 (scienziato sociale e psicanalista, tanto ricco quanto disordinato) sulle tecniche di superamento degli ostacoli alla guarigione. La domanda che ci si pone è? Sono mai stati integrati tra di loro studi, tecniche ed esperienze diverse? Probabilmente no, perché la figura del sociologo, rimanendo sganciata dal clinico, non interagisce e il malato (che io voglio chiamare prigioniero) resta privo d’assistenza.

Tornando alla domanda iniziale: chi sono? Un ricercatore sociale di oltre 50 anni che aggregando ragionamenti diversi, perviene a conclusioni non ancora diffuse ed è per questo che così tanta ostilità e offese personali mi vengono riservate anziché lavorare insieme. Che stano un mondo che si dichiara non razzista e poi offende chi la pensa in modo diverso a fini di bene sociale. Il mio impegno, in questo mondo, deriva dal bisogno d’elevare la civiltà nel rapporto tra società e paziente (prigioniero).

 

Una mente sana in un corpo malato: l’essenza della teoria The Prisoner of Parkinson

Questa è la definizione che ritengo saggia nel sintetizzare la posizione di una persona affetta dal morbo di Parkinson.

Sostanzialmente stiamo parlando di “prigionieri” incastrati in uno scafandro corporeo. Questa situazione caratterizza l’intera degradazione della malattia nei 5 stadi che la contraddistingue. La teoria parte della due seguenti premesse:

  • l’applicazione dei criteri di relazione con i prigionieri, maturate in ambito di sociologia militare (è una branca di studio specifica che conosco) dalla guerra del Vietnam in poi, aprendo un dialogo verso una coscienza del prigioniero offesa nella sua corporeità (attenzione, non voglio parlare di pazienti perché li ritengo prigionieri)
  • il ricorso alle normali prassi di terapia breve, già studiate dal prof. Milton Erikson e perfezionate dal prof. Giorgio Nardone. In pratica dal 1974 si ritiene che il paziente “trattenga” la sua patologia in un circolo vizioso. Per dribblare questo processo mentale di protezione del proprio stato clinico, è necessario aggirare i sistemi di mentalità sia con esercizi banali tesi a rimodulare la quotidianità (stabilire nuove esperienze) che intervenendo, nei casi più insistenti, con tecniche d’ipnosi. Sostanzialmente s’inganna il sistema di conservazione della malattia all’interno del paziente, spostando la sua attenzione su altri aspetti della vita. Concettualmente qualcosa del genere è applicato nei corsi di PNL (programmazione neuro linguistica) per quanto questa pratica non sia assolutamente ritenuta, scientificamente completa.

Non sono uno psicanalista, ma invito i ricercatori a valutare l’applicazione delle loro conoscenze sul tema, con i quali sono pronto a collaborare avendo anche insegnato PNL negli ultimi 10 anni.

 

The Prisoner of Parkinson

The Prisoner of Parkinson

 

Considerazioni sulla degradazione mentale del prigioniero da Parkinson

L’affermazione di uno spirito sano in un corpo malato, che esprime una delle sintesi del “manifesto sul Parkinson” qui descritto, necessita un chiarimento.

Certamente nei primi stadi del progresso della malattia è inequivocabile che lo spirito del prigioniero sia sano nella completezza delle sue funzioni. Purtroppo però, nel progresso della sindrome, il prigioniero oggettivamente perde sia lucidità sia linearità d’elaborazione. Significa che l’espressività si rende logorroica, ripetitiva, ossessiva, limitando la completa capacità d’osservazione-analisi e reazione di un comportamento normale. Purtroppo questo incide sui sentimenti in ambito affettivo, la cui non completezza nel racconto delle emozioni, ne limita il mantenimento e sviluppo (crisi di coppia nella storia affettiva dei prigionieri).

Su questo versante del dramma umano nella malattia, si nota da parte del prigioniero una durezza di comportamento lesiva al romanticismo necessario per il completamento del sentimento e dell’amore. Inutili appaiono i costanti richiami da rivolgere al prigioniero, relativi a quella famosa frase del film “Shinder’s list”, un’ora una vita, nel significato dell’esistenza matura, concentrata in una singola ora, anziché nello sviluppo dell’intera esistenza. Interessanti sarebbero gli approfondimenti che emergono sul piano relazionale affettivo della sessualità della coppia descritti nel recente studio pubblicato dal titolo “La sessualità nella società globalizzata”. Nel testo si scopre una terapia della coppia in crisi, attraverso un’audace comunicazione sessuale. Unica ricerca pubblicata sull’argomento in termini così riabilitativi per la coppia.

Concludendo, è certamente vera l’affermazione di uno spirito sano in un corpo malato, ragionando di Parkinson. Purtroppo però, ma nel progresso della patologia diventa sempre meno credibile a livello concettuale, perché il malato si concentra sempre di più nel suo ruolo. Del resto se esiste la terapia riabilitativa dovrebbe anche esistere una terapia sociologica per compensare quegli oggettivi cali di linearità del pensiero che subisce un paziente. In tutto questo la socialità, come lo stimolo comunicativo epidermico privato, sono strategici per mantenere umana e significativa l’esistenza di un prigioniero, che a questo punto non è più un malato, ma una persona in difficoltà espressiva. Stiamo forse vivendo l’alba di una nuova sensibilità epidermica e sessuale tale che si possa ingentilire la sua esistenza attraverso la comunicazione affettiva? La parola d’ordine in questo caso dovrebbe essere: educami al tuo dolore. Mi rendo conto dell’accusa a questa teoria nell’essere più teorica che pratica e che solo le cose semplici hanno successo. Certamente, però, oggi non si reagisce al male quanto lo si subisce.

 

La terapia sociologica – The Prisoner of Parkinson 

Applicando i più elementari concetti dello psicanalista Milton Erickson e i successivi aggiornamenti, emerge che per “spostare il focus mentale del prigioniero, dal suo stato, favorendo così un miglior rapporto con la prigionia è necessaria una terapia sociologica. Detto in altre parole necessita la costituzione di una comunità, virtuale o reale, in grado di coinvolgere h24 i prigionieri in una successione senza fine d’attività in ogni genere e grado. Non si tratta di una procedura ludica, al contrario del “darsi una mossa”, con gli altri, perché da soli “si muore”. Non basta, si sta anche parlando di una prassi individuale d’attivazione/reazione per rimettere la persona al centro di un crocevia di motivazioni affettive, percettive, sensitive, emotive, epidermiche, concettuali su cui è fondata la vita. Comunicando con i prigionieri, è sintomatico registrare la ripetizione di un concetto: sono destinato a morire, si tratta solo d’aspettare la mia ora.  Appena annotata la ripetizione nel corso di poco tempo (in genere una volta ogni 2 minuti) è saggio farlo presente e ricordare che alla “morte certa” del prigioniero, si contrappone la “morte incerta ma sicura” di ogni altra persona. Da qui nasce la riabilitazione caratteriale e comportamentale, che così descritta appare semplice e banale, ma che in realtà coinvolge una notevole successione d’azioni di riattivazione dell’umore della persona.

La terapia sociologica dovrebbe comportare un costante monitoraggio in ogni contesto privato/sociale del prigioniero, attraverso una prassi di ricerca sociale che si chiama qualitativa. Ciò comporta che ogni paziente ha una personalità e rappresenta un caso a se stante, evitando le più facili e usuali procedure di campionamento tipiche delle ricerche quantitative. Siamo in presenza dell’opposizione tra 2 metodiche diverse: quella quantitativa scelta dalle istituzioni per redigere il libro bianco sul Parkinson e la qualitativa che si rivolge alla singola persona come se fosse l’unico caso. L’arte, nella ricerca qualitativa, risiede nel collegare “i singoli casi” in un’elaborazione generale per fornire alla Nazione i numeri del bisogno. Detto in parole più semplici, attualmente la ricerca sociale sul campo viene svolta in termini formali (documenti già elaborati dagli organi sanitari sui quali costruire il campione statisticamente valido) ottenendo di poter “contare” i malati senza entrare nelle loro reali sensibilità. Questo metodo è da me considerato non adatto a comprendere la reale dinamica del dramma di una malattia che dura oltre 30 anni (condanna a vita) anche se va riconosciuto come la prassi del campionamento consente un adeguato utilizzo dei fondi posti a disposizione al progetto.

Sorge la domanda: è preferibile la formalità o il benessere delle persone? Al contrario, con il metodo qualitativo, serve visitare prigioniero per prigioniero, in una misura non inferiore alle 20/25mila persone reali, per avere sia un quadro generale e nazionale del dramma, sia anche e soprattutto scatenare una reale comunità in continua interazione, che rappresenta il vero valore aggiunto della ricerca. In pratica è saggio realizzare una ricerca sociale sul Parkinson, intesa come reale strumento di mobilitazione e aggregazione, anziché un documento da sfoggiare per mostrare d’aver fatto qualcosa che è sicuramente premiante, ma non sostanziale e risolutivo, in un dramma umano così esteso e crudele.

The Prisoner of Parkinson

 

Il protocollo di ricerca nella teoria The Prisoner of Parkinson 

The Prisoner of Parkinson è una teoria sociologica di ricerca applicata alle patologie di lunga durata.

CONCETTI ISPIRATORI E STORIA DELLA RICERCA

Il concetto ispiratore è che si ritiene la persona sofferente come mentalmente sana, in un corpo malato. Da qui nasce la prigionia. Il malato, in questa impostazione è un prigioniero.

Non solo. Chi soffre si comporta in maniera diversa da chi non è sofferente. Emerge che la sofferenza rappresenta uno stato modificativo del comportamento umano.

Questo dettaglio ha degli effetti clamorosi nella vita affettiva e privata. Nell’amore si vorrebbe proseguire a esprimersi fisicamente e nei sentimenti come “prima”, ma non si riesce. Il partner non educato ai “nuovi bisogni” del prigioniero, traduce il nuovo comportamento come distacco-tradimento dalla storia di coppia. Nasce e si consolida la crisi.

Ci sono ancora altri aspetti che danno un volto alla teoria sociologica nota nel mondo come The Prisoner of Parkinson.

In epoca globalizzata le persone, specificatamente in Occidente, (qui viene ricordato un concetto fondamentale) hanno recepito la precarietà lavorativa all’interno della vita familiare. Da questo processo di trasferimento del disagio, emergono il 42% dei divorzi e il 60% degli abbandoni nelle coppie non coniugate. Una situazione sociale di questo tipo, alza il livello di nervosismo nella società.

The Prisoner of Parkinson, ritiene che il sistema nervoso non sia stato “fatto da Dio” per essere nervosi. Al contrario i nervi hanno la funzione di muovere al comando gli arti e assicurare il funzionamento del corpo. Un uso dei nervi indirizzato verso un costante nervosismo (nel lavoro e nei rapporti familiari) favorisce l’insorgenza di una malattia nervosa? Ecco uno dei quesiti di fondo della Teoria sociologica.

La ricerca sociologica nasce in questo mondo, nel mese di ottobre 2014 su esplicita richiesta dell’Associazione italiana del Parkinson, sede di Milano che ha convocato dei sociologi come nuovi volti della ricerca.  A quell’incontro parteciparono 2 sociologi.

Il grande e mitico prof. Costantino Cipolla, dell’Università di Bologna, cattedra di sociologia della sessualità e il prof. Giovanni Carlini, appena docente di Stato con 9000 ore d’insegnamento.

Nel corso dei primi 60 giorni i due professori hanno scelto campi di ricerca diversi pur avendo una comune radice sociologica nello studio della sessualità (prof. Cipolla) e nella devianza (prof. Carlini). Il prof. Cipolla, con il sostegno dell’Università Cattolica di Milano ha chiesto e ottenuto un finanziamento pubblico (tra i 240-300mila euro) per una ricerca sul Parkinson, che analizzasse i diversi protocolli delle ASL italiane sulla patologia. In pratica uno studio che partendo dall’alto sia funzionale alle istituzioni. Ne è nato il libro bianco sul Parkinson.

Il prof. Carlini, a zero finanziamenti, al contrario è partito dal basso, dal singolo paziente, studiando il lato umano della sofferenza per chiedere, alla persona cosa abbia bisogno e come stia soffrendo nella malattia. Ne sono nati diversi testi di sociologia già pubblicati (in tutto 4 libri compreso questo) I 2 approcci sono completamente diversi, infatti in gergo tecnico si tratta di una ricerca quantitativa nel caso del Prof. Cipolla, mentre si conferma qualitativa con il prof. Carlini.

PROCEDURA OPERATIVA

Essendo The Prisoner of Parkinson una ricerca sociologica quantitativa, il numero di persone che possono essere studiate è limitato. Non più di 25-27 casi. Il 50% del totale è focalizzato sul Parkinson, rispettando l’origine della ricerca. Gli altri casi provengono da patologie di lunga-lunghissima sofferenza negli anni: 20-25-30 anni. Il protocollo di ricerca va letto e firmato dal “prigioniero” dove indica, oltre la data, il nickname che desidera utilizzare, questo per permettere che la sua esperienza sia discussa in convegni e seminari di studio come trascritta nelle pubblicazioni. Ad esempio la Signora Domenica Bianchi vorrà farsi chiamare Rosa1. Mai verrà divulgata la reale identità se non su espresso, motivato e firmato desiderio. Per ogni caso di studio ci sono almeno 100 incontri, che possono avvenire a scelta del “prigioniero” per telefono, faccia a faccia, email, chat. La regola è che sia tutto scritto o nel caso d’intervista orale, gli appunti vanno successivamente trascritti, perchè ci sia un file per ogni incontro. Pertanto c’è Rosa1.1 fino a Rosa1.100. Così per ogni “prigioniero”. In tutte le interviste la domanda iniziale sarà (tranne il primo incontro)

– cosa ricorda del precedente incontro.

Quindi nel corso della conversazione e ascolto: ha applicato nella sua vita personale e professionale le idee che abbiamo discusso nel precedente incontro?

Al termine dell’intervista la conclusione sarà sempre: quando ci sentiremo nuovamente, le chiederò che difficoltà ha avuto nell’applicare i nuovi concetti.

I NUOVI CONCETTI

S’intendo per nuovi concetti i seguenti:

  1. a) un maggiore controllo del nervosismo;
  2. b) una presa di coscienza dei “nuovi bisogni”;
  3. c) una spiegazione, educazione e condivisione con il partner ai “nuovi bisogni”;
  4. d) un eventuale collegamento tra un più cosciente uso del corpo e la trasmissione dei “nuovi bisogni” (sessualità matura e comunicativa)
  5. e) il bisogno di cambiare per rinnovarsi.

DIFFUSIONE DEI DATI RACCOLTI

Senza comunicare i nominativi, i dati raccolti servono per contribuire alla ricerca sociale nella malattia. Questa ricerca si chiama The prisoner of Parkinson ed è pubblicata liberamente a beneficio di tutti nel web. I concetti sono discussi in seminari e convegni a livello internazionale e motivo di pubblicazione.

OBIETTIVO FINALE

Nel mondo, nessuna università ha mai permesso che si formasse una cattedra di sociologia del dolore (pain sociology). The prisoner of Parkinson ha l’ambizione di contribuire a dare sostanza a una ricerca che studi la sofferenza umana, offrendo strategie comportamentali per vivere meglio.

 METODICA OPERATIVA PER UN QUESTIONARIO NAZIONALE DI RICERCA

Si ritiene opportuno avviare, con la collaborazione di tutti, un censimento nazionale per capire le effettive dimensioni del Parkinson come prigionia a vita. Per fare questo (non ci sono fondi) serve iniziare formando un QUESTIONARIO a domande aperte (il prigioniero di Parkinson scrive quello che vuole; sarà compito del ricercatore capire) Per formare il questionario (che tipo di domande vogliono i prigionieri) serve una mobilitazione nazionale (ecco che si crea il diversivo alla noia della malattia che uccide) redigendo un elenco di quesiti ritenuti sia necessari sia accessori (spesso quest’ultime sono le più importanti). Tramite un’associazione di riferimento, tutta la Nazione è chiamata a rispondere, in un lasso di tempo non superiore ai 45 gg, con confronti quotidiani sul tema: qual è l’elenco corretto di domande da fare a un prigioniero di Parkinson?

Terminata la fase 1, la formazione del questionario, quella successiva sarà la distribuzione e compilazione che richiederà 4 mesi. Il tempo non è importante quanto la mobilitazione, che esprime il reale valore di questa iniziativa che dovrebbe assumere carattere permamente. L’elaborazione del materiale pervenuto comporterà 6 mesi con report giornalieri atti ad alimentare il dibattito nazionale. 12 mesi dopo l’avvio della ricerca, sarà possibile pubblicare uno studio che avrà come finalità (oltre l’aver attivato quotidianamente la comunità) quello di spiegare alla Nazione cosa serve a una famiglia o a un prigioniero di Parkinson. Ebbene questa iniziativa su scala nazionale non si è ancora sviluppata, causa ostilità verso la teoria sociologica per quanto le idee e progetti siano già attivi e facilmente applicabili.

 

La trasformazione del comportamento sotto l’effetto del dolore

Per quanto il dolore sia parte integrante della vita umana, con effetti diretti nella modificazione del comportamento, non è ancora stato studiato sotto il punto di vista sociologico, in particolare nei suoi effetti familiari e sociali. Nelle università americane indubbiamente è oggetto di studio restando però nei termini clinici e psicologici, mai relazionali, che sarebbero quelli socialmente più rilevanti. Cos’avviene nelle coppie o comunque nei rapporti sociali di lungo termine, quando il dolore ha il sopravvento sulla mente delle persone?

 

Il dolore – The pain sociology 

Il dolore, la sofferenza, il panico o più semplicemente la sola paura, sono manifestazioni di conservazione dello spirito e del corpo per difendere la persona. Solitamente attraverso il dolore, si accende “una spia” che segnala l’urgenza d’allontanarsi o sottrarsi da una certa condizione di pericolo. Questo tipo di sofferenza rientra nel controllo della mente consentendo all’uomo e alla donna di poter ancora scegliere.

Il tipo di dolore oggetto di questo studio però, non è quello sotto il controllo della sensibilità umana, al contrario, quando è sofferto per effetto di malattie o traumi ai quali non c’è stata scelta. In questi casi non resta che sopportare, “accettando” la sofferenza in attesa di guarire o nella speranza che evolva il proprio stato clinico. Quel tipo di dolore che si sopporta, anche perché imposto dalla sorte della vita, sviluppandosi su un medio lungo periodo, concorre alla modifica del comportamento umano, ridefinendo l’intera struttura della relazione sociale, affettiva e familiare in senso solitamente peggiorativo. E’ da qui che The Prisoner of Parkinson prende sostanza come assetto di ricerca. 

 

The Prisoner of Parkinson

 

Le diverse risposte al dolore in base al genere femminile o maschile

Per quante personalità esistono nella natura umana, (sono infinite) tante sono le possibili risposte di un uomo e di una donna a un “ingiusto” stato di sofferenza causato da un evento non voluto e frutto del caso, quindi si parla di malattia o di un incidente.

In linea di massima, dagli studi svolti a favore dei prigionieri in Italia, si nota un’importante divaricazione di genere nella sopportazione al dolore. Detto in altri termini, i maschi manifestano specifiche forme di reazione al dolore rispetto quelle femminili che restano solitamente “più semplici” da gestire per il partner. Infatti mentre il dolore maschile va accudito, trovandosi particolarmente simile a quello di un bimbo bisognoso d’affetto, al contrario, nella sofferenza femminile, trova posto l’intera gamma di mancate rivendicazioni sociali che la donna ritiene, a torto o a ragione, d’aver subito. In altre parole mentre nelle donne assistiamo a una “rivoluzione” causata dalla sofferenza, questo non avviene nei maschi. Perché? Qui la teoria The Prisoner of Parkinson è in grado d’allargarsi cogliendo l’intera società.

La sofferenza nel dolore tradotta al femminile

Le donne hanno la maggiore capacità di resistenza alla sofferenza dell’intero genere umano. Probabilmente, mi si permetta una considerazione a sfondo religioso e mistico. Dio ha assegnato al genere femminile il compito dare continuità alla specie nella storia probabilmente in forza a quest’attitudine. Da una capacità così intensa alla sofferenza, per le donne, come se fosse “una marcia in più”, emergono in ambito di sociologia della sessualità, segnali interessanti. Il riferimento è per quella particolare predisposizione femminile nel provare piacere verso delicate forme di dolore, usuali nel rapporto sessuale. Si definisce in questo mondo un’area d’interregno, nel comportamento tradizionale delle donne.  Il dolore non è sempre e solo un male, ma va soggetto a interpretazione. Uno stato di “accesso alla sofferenza” di questo tipo, consente una soglia del dolore più elevata nelle donne, rispetto gli uomini. Una capacità che si applica anche verso quella sofferenza non scelta perché imposta dai casi della vita e dalle malattie. Si noti come The Prisoner of Parkinson tenda ad essere una teoria sociale oltre che concentrata sulle malattie di lungo percorso. Assodato questo primo passaggio si possono considerare diverse casistiche di reazione al dolore così classificabili:

  1. il silenzio. Si tratta di una fase estremamente pericolosa per la qualità della vita di una coppia. Nel chiassoso silenzio della sofferenza, la donna si vergogna dei suoi nuovi limiti che cela al partner senza aiutarlo a capire o consentirgli di reagire. Non solo, avviene anche una severa rimostranza della moglie verso il marito, perchè “non ha capito” come si sarebbe dovuto comportare nella nuova situazione. Si entra, con questo comportamento, in un labirinto di mancate attese per un aiuto che non arriva generando nervosismo e astio. In casi di questo tipo, che sono la netta maggioranza (71% delle coppie studiate) l’unico in grado di poter gestire la frattura comportamentale è solo l’uomo, che andrebbe però educato nel nuovo ruolo. Il problema a questo punto è: chi educa i maschi nell’evoluzione della coppia? A questa funzione dovrebbero rispondere le donne, ma ciò non avviene, quasi a temere la vecchiaia o quel momento della vita per lo sfiorire del fascino di donna. In questo modo, applicando una “prassi dello struzzo”, che non vede il futuro per evitarlo, i partner non ricevono i rudimenti necessari, nel perdurare della crisi, che sarebbero utili a fronteggiare quelle fasi della vita dove il dolore ha la sua importanza. La prassi più corretta sarebbe, nella fase nascente del dolore, prenderne atto e insieme al partner capire le giuste reazioni da gestire insieme, pur se questo atteggiamento potrebbe essere definibile “gestione logica della crisi”, ovvero un qualcosa di non umano e non facilmente realizzabile anche se estremamente necessario. Il motivo per cui questo studio nasce è per cercare d’offrire a chi soffre delle possibilità (non facili) per provare-provocare meno conseguenze al dolore di lungo periodo. Ecco spiegato uno dei passaggi fondamentali della teoria The Prisoner of Parkinson. Una precisazione. Il malato normalmente non sa di cosa ha bisogno e non riesce a spiegarlo, pur essendo certo che necessita di un diverso grado d’attenzione.

  2. la reazione sessuale e affettiva. Ci sono non pochi casi, (il 8% del campione) dove la mancata risposta del partner alla sofferenza della donna, provoca o la rottura del rapporto o un’importante devianza sessuale, mai verificatesi negli anni precedenti. Nel dettaglio, per quanto riguarda la crisi e ipotetica conclusione del rapporto, l’incapacità tutta maschile d’aiutare e comprendere il nuovo disagio della compagna è tradotto dalla donna come un tradimento (l’ultimo sopportabile) da cui il bisogno di liberazione. E’ uno dei passaggi più delicati della teoria The Prisoner of Parkinson. In realtà la sofferenza da dolore fisico è solo l’ultimo atto di una costante degenerazione della coppia, che a questo punto esplode, conteggiando ogni precedente torto reale o supposto sia stato commesso. Sostanzialmente la sofferenza non è la vera causa della conclusione del rapporto di coppia, ma un evento dei tanti che si sommano tra loro, creando artificialmente un’apparente situazione senza scampo.

Certamente di fronte al muro del dolore, la sensazione è quella d’aver esaurito tutte le possibilità. In questo caso la forte sofferenza, indotta da un’importante malattia come il Parkinson, l’Alzheimer, tumore, leucemia etc.. chiudono lo scenario del futuro. Questo “muro” apre a un impellente bisogno di raccogliere più briciole di vita residua possibile e subito. La foga porta ad arraffare frettolosamente più emozioni possibile, senza più declinare il comportamento alla pazienza come fatto negli anni precedenti. Il dolore, purtroppo porta alla fretta in ogni cosa, accelerando le conseguenze di ogni piccola frattura possibile (quale rapporto non ha conti in sospeso?). In pratica si entra in forma conflittuale per una fase definibile di “fine vita”. Qui The Prisoner of Parkinson diventa l’unico aiuto possibile.

Sarebbe saggio conoscere queste dinamiche preparandosi per tempo. Significa sapere che la fase del dolore, in una relazione di coppia, comunque giungerà in ogni caso. Questo significa non prestare il fianco a cattive e volute negatività. Non chiudere i conti in sospeso significa permettere eventi che possono indurre una donna verso una selvaggia reazione sessuale. E’ stato studiato nella teoria come a volte, questo disordine sessuale, si sia rivolto verso più uomini nello stesso giorno. Nel dettaglio il riferimento è per quel bisogno sessuale estremo, concretizzato in ben 3 rapporti sessuali nello stesso giorno, consensuali, con altrettanti uomini. Il tutto nella ferma intenzione d’arraffare ogni quota di vita possibile, senza con questo essere considerabili delle ninfomani. A questo stadio The Prisoner of Parkinson tocca uno (non unico) vertice nel dramma umano. In realtà, le donne che hanno riferito reazioni di questo tipo, imputano la responsabilità ai farmaci assunti, il che sarà parzialmente vero, non trascurando una specifica indole al disfattismo. Sono i casi più difficili da gestire, perché utilizzano il dolore per una resa dei conti interna alla coppia, rendendo necessaria una specifica assistenza.

Concludendo, accade spesso, nelle coppie che stanno soffrendo per dolore fisico prolungato nel tempo, che si prendono delle decisioni drammatiche e definitive, sotto la visione parziale e non completa del momento contingente, quasi come per effetto di una droga o alcool;

  1. l’attivismo. Tutto sommato è assimilabile al silenzio al contrario, riferendosi alla prima tipologia di risposta femminile al dolore qui studiata. Riguarda il 36% del campione e comporta un attivismo esasperato su ogni cosa possibile, soprattutto se esterna alla vita familiare. Si esprime sotto forma di volontariato, nella parrocchia, gruppi di sostegno a ogni possibile immaginabile esigenza reale o inventata, purchè impegni una mente disperata e lacerata sia dal dolore, sia soprattutto dall’assenza di prospettive. Anche in questo caso la soluzione risiede solo in un uomo, il partner che sappia accogliere e abbracciare una compagna confusa. Purtroppo il problema resta lo stesso; chi educa gli uomini nel gestire la crisi della vita?
  2. un grande bisogno di feeling. Il vuoto che crea il dolore scavando una voragine tra coniugi, in alcuni casi (15% del campione) viene supplito da una “voce amica”, dal tocco di una mano che rinforza, dal feeling che si istaura tra la donna e “altri-altre” senza che questo necessariamente sfoci in aspetti emotivi, affettivi o sessuali a titolo consolatorio. Si tratta della riscoperta, nel senso classico, del concetto di amicizia pura, quella asettica e platonica, includendo anche fantasie, ma che restano tali. In questo caso la terza persona o coppia, triangola la relazione affettiva allargandola sperando di non generare gelosie distruttive. Gestendo la crisi, il coniuge dovrebbe “lasciar correre” il bisogno sociale della sua compagna, che non è più attivismo, ma ricerca del “vero” e dei valori più intensi dell’esistenza. Nonostante la sofferenza subita, la donna è in grado di rientrare nel rapporto, storicamente vissuto, in forma più completa, appagata e ricca nello spessore del pensiero e delle emozioni, portando nuova fertilità emotiva, grazie alla forza di una vera e sincera amicizia.

La sofferenza nel dolore tradotta al maschile negli studi The Prisoner of Parkinson

Si tratta di un dolore “facilmente” gestibile dalla donna, partner, che riacquista la sua natura materna curando il suo uomo malato, ridotto al ruolo infantile di debolezza. Per quanto queste parole possano apparire ciniche, in realtà hanno lo scopo d’essere particolarmente dirette nella gestione del dolore. Nel caso di un uomo, l’essenza nella gestione del male è concentrata nell’accudire con amorevole pazienza i suoi bisogni e dubbi, qualcosa che al genere femminile risulta sostanzialmente naturale.

Si può affermare che il dolore maschile sia più “facile” da gestire rispetto quello femminile? Mentre nulla cambia sul piano “chimico” del dolore e della sua incidenza nella carne e spirito umano tra uomo e donna, la gestibilità spirituale della sofferenza è completamente diversa (opposta) tra un genere e l’altro. La compagna/moglie ha un immenso potere per accudire ogni forma di dolore fisico maschile, a patto che non ci siano importanti fratture da far valere in senso vendicativo nel rapporto.

La sofferenza per single e separati nella teoria The Prisoner of Parkinson

Si tratta del modo peggiore per affrontare la “stagione del dolore” che contraddistingue tutte le esistenze umane. Restare soli, separati, divorziati o peggio single, di fronte all’appuntamento con la decadenza della salute, significa volersi fare veramente del male. Inequivocabilmente la sofferenza, sia per una donna che un uomo, vissuta nello status di single è infinitamente peggiore, più lunga e devastante, rispetto al normale standard sociale che dovrebbe considerare le persone unite da un rapporto d’amicizia, convivenza o coniugale. Comunque, pur essendo single, un adulto per gestire il momento della sofferenza dovrebbe costruire un’intensa relazione virtuale e sociale con il maggior numero possibile di persone, compensando la solitudine esistenziale che si è inflitto. Ci sono casi di successo per single sia femminili come maschili, pur rappresentando un arrangiamento.

Va comunque segnalata, anche in quest’ambito, come la crisi della personalità moderna si esprima in una grave incapacità di relazione sociale e affettiva, le cui ricadute non si limitano al nervosismo di base nei rapporti tra adulti o alle separazioni tra coppie, ma colpiscono poi l’essenza della vita riducendone la qualità, soprattutto nella sua fascia alta, intercettando l’età del dolore. Non si vuole propagandare la vita di coppia solo in funzione d’assistenza nella vecchiaia, ma questo aiutarsi fino in fondo sta scritto nel cuore degli umani e nella civiltà delle relazioni umane degli ultimi 50mila anni, non sconfessabili dai disorientamenti e confusione di questi decenni di società globalizzata. 

Il dolore come evento inevitabile negli studi The Prisoner of Parkinson 

La fase del dolore in una vita di coppia rappresenta un passaggio inevitabile che va preparato per tempo educandosi uno all’altro. Presentarsi impreparati o con gravi fratture emotive e sentimentali “all’appuntamento del dolore”, vuol dire esporsi al concreto rischio di soffrire ancora di più. Si apre in questo modo non solo una riflessione per la sociologia del dolore, ma una pedagogia del dolore, ancora sconosciuta nella nostra civiltà. 

The pain sociology – la sociologia del dolore nel contesto della teoria The Prisoner of Parkinson

Studiando una teoria utile per i malati di Parkinson ritenuti a tutti gli effetti dei prigionieri, ovvero persone sane incapsulate in un corpo malato, nasce la sociologia del dolore come branca di ricerca e studio. Purtroppo la Pain Sociology non esiste in nessuna università del mondo creando comunque la base concettuale per capire meglio la teoria nota come The Prisoner of Parkinson.

Potrebbe sembrare un gioco ma non lo è.  

La teoria sociologica dedicata al Parkinson, The Prisoner of Parkinson (ormai così chiamata perché nota più negli Stati Uniti, in ambito accademico che in Italia, dov’è nata, ma ha subito un’ostilità preconcetta da parte delle diverse associazioni del Parkinson in particolare da Parkinson Italia a Milano) per potersi sviluppare non può più solo studiare il Parkinson, ma il dolore in senso lato generato da una malattia o da un evento traumatico. Ne consegue che per sostenere un insieme di concetti è necessaria una disciplina. Essendo The Prisoner of Parkinson, unica al mondo, è stato necessario impostare una nuova forma di pensiero che ne allargasse l’ottica che ora chiamiamo Pain Sociology (sociologia del dolore).

Il dolore pur modificando il comportamento delle persone, non è mai stato realmente studiato. Ecco perchè ci serve una nuova teoria sociologica. The Prisoner of Parkinson. 

Serve chiarire un concetto prima di tutto: la sociologia studia il comportamento sociale delle persone, detto in altri termini come interagiscono in famiglia, con i cari, amici e conoscenti. Al contrario l’analisi introspettiva è campo della psicologia e psicanalisi.

Come pensiero evoluto sugli effetti del dolore, abbiamo molti riferimenti in ambito di psicanalisi e di psicologia, ma su quello che accade nel rapporto di coppia, ad esempio, per effetto del dolore qui la sociologia, purtroppo non ha ancora saputo esprimere il meglio. Certamente in ambito di sociologia della famiglia e della devianza, ci sono degli spunti di ricerca, ma mai organizzati come un sistema di pensiero che possa essere utile prima di tutto alle persone, malati e prigionieri dentro il male. Infatti quanto qui si sta organizzando non è funzionale solo a una nuova cattedra universitaria, ma nel tentativo di poter offrire alle persone un bagaglio d’esperienze, idee, concetti, sensazioni, pensieri e prospettive che aiutino chi soffre. Come si può gestire la modifica del comportamento sotto l’effetto del dolore nei rapporti personali e sociali? 

Esiste una soglia maschile al dolore che è diversa da quella femminile

Quando si studia il dolore, la prima cosa da rilevare è il genere di chi soffre perché tra uomini e donne, sulla sofferenza, si apre una divaricazione impressionante come già descritto.

Fin qui nulla di realmente nuovo, ma da questa “informazione” si passa a chi dovrebbe gestire il dolore altrui, entrando in campo il partner, che solitamente non viene educato (per vergogna e una falsa interpretazione del pudore da parte del prigioniero-paziente) alle nuove necessità che emergono da una sofferenza prolungata nel tempo, unita alla paura dell’ignoto (la fine della vita). La trappola scatta sempre seguendo queste procedure di vergogna da un lato (il prigioniero), ignoranza nel gestire la nuova difficoltà (da parte del partner) e infine astio del paziente-prigioniero, verso il coniuge, per non aver capito e reagito (benchè non educato a questo) Chi avrebbe dovuto educare il coniuge? Si è già scritto nelle pagine precedenti che l’educazione del partner è a cura della donna. Ora un passo in più. Arriva la cultura e un ordinato pensiero sociale a favore delle persone. Benvenuti nella Pain Sociology.

Chi sta studiando la Pain sociology 

Tra l’Italia e gli Stati Uniti c’è il prof. Giovanni Carlini, l’autore della teoria The Prisoner of Parkinson, negli Stati Uniti, presso la Emory University, facoltà di sociologia, il prof. Iris Chi, che ha già pubblicato in Honk Kong delle brevi ricerche sul tema e dalla Corea del Sud la Dottoressa in medicina, Giulia Cristina Pinolo Sacchi, italiana, reduce dalle percosse subite in Cina nel recuperare la sua ricerca sulla cura omeopatica al dolore.

Imbavagliare la ricerca che parte dal basso

L’ostilità preconcetta da parte dell’associazione nota come Parkinson Italia verso la nuova teoria sociologica The Prisoner of Parkinson, ha dimostrato come frettolosamente in Italia si voglia imbavagliare la ricerca che parte dal basso, dai pazienti, dai reali bisogni della comunità, per favorire qualcosa di più ufficiale, ingessato e formale. In effetti gli errori vengono fatti da tutti e frequentemente, ma quanto è realmente colpevole è l’assenza di spirito autocritico. Lasciando l’Italia al buio della sua censura, negli Stati Uniti si sta formando un gruppo di lavoro intorno alla Pain Sociology da cui stanno per emergere studi empirici, ricerche e analisi, finalizzate ad elevare la qualità di vita delle persone che soffrono nel mondo. Che peccato che dall’Italia si debba emigrare quando si hanno idee uniche.

Studi e considerazioni sul paziente zero

In applicazione della nuova teoria sociologica al Parkinson, nota come “Il prigioniero da Parkinson” emerge, sul “paziente zero”, un grave problema nella dolorosa reazione fisica successiva, solitamente il giorno dopo, alla forte sollecitazione emotiva vissuta per reagire al male come metodo e sistema di vita. Detto più semplicemente, il prigioniero seguendo l’applicazione pratica della teoria vivendo forti emozioni, tali da sollecitare l’intero sistema nervoso riattivandolo dai capricci tipici del Parkinson, solitamente paga uno scotto doloroso come reazione fisica di un corpo che non vuole reagire condannando il prigioniero in una tomba viva. Come fare?

Per riannodare tutta l’impostazione nota in dottrina come ”Il prigioniero da Parkinson” servono richiamare alcuni passaggi riassuntivi che sono:

  • purtroppo esiste la malattia che colpendo il sistema nervoso, incapsula persone sane dentro un corpo malato. Chiuse in questo scafandro, le persone reagiscono solitamente in due modi diversi. La stragrande maggioranza si lascia assorbire dalla malattia convivendoci insieme, accettandone e subendone le conseguenze. Questi sono i malati. Un’altra parte, al contrario, lotta per “evadere” dai limiti di un corpo che non risponde più ai propri ordini; si tratta di prigionieri. In pratica abbiamo dei rassegnati (la maggioranza) e dei ribelli (pochissimi). Il primo aspetto da chiarire quando si è di fronte a una persona colpita dal Parkinson è: si tratta di un malato o di un prigioniero? La risposta non può che venire dalla persona stessa e non dal ricercatore. Ovviamente accade molto spesso che ci si dichiari “prigionieri” senza esserlo, anzi è quasi la norma.
  • Nel caso sia stato chiarito (ma ci saranno mille ripensamenti) che siamo in presenza di un prigioniero, bisogna subito fornire gli strumenti per reagire alla malattia (farlo evadere) quindi si entra in piena applicazione della teoria sociologica.
  • La teoria è “semplice”. Constatato che il Parkinson attacca il sistema nervoso, è esattamente da questo punto che serve scatenare la risposta alzando enormemente la capacità di percezione nervosa, sensoriale ed emotiva del prigioniero. In pratica un “colpo su colpo” che porta il paziente a reagire come se fossimo su un campo di battaglia. Perfettamente il contrario dell’attuale procedura di cura.
  • Per ottenere questa ipersensibilità reattiva, il prigioniero ricorre alle sue personali e intime facoltà umane, assemblando delle risposte al sistema nervoso malato. Questa è la parte più difficile perché serve, attraverso l’uso della disciplina, sviluppare ogni carisma, facoltà, capacità, inclinazione e sensibilità di cui è dotata la persona. Uno sforzo di questo tipo, crea sensazioni nervose “buone” lanciate contro quelle “cattive” (il linguaggio è semplicistico). Siamo al centro della teoria sociologica che richiede, al contrario della vittimizzazione tradizionale del paziente, tipica di ogni patologia, un’importante ripresa di carattere e forza per combattere il proprio stesso corpo: in pratica stiamo chiedendo qualcosa d’innaturale e contrario alla tradizione, anche perché in questo caso la posta in giorno è grande.
  • La nuova teoria sociologica spinge così il prigioniero a esaltare ogni sua teorica o pratica capacità attraverso il canto, la lettura, la pittura, lo studio, il sesso, la fisicità e intimità di coppia, lo sport, la fede nel senso religioso. In realtà non è importante come e perché il prigioniero reagisca, ma la reazione che dovrà essere strutturale e continuativa nel lungo tempo. Ecco perché nella teoria sociologica si parla di militarizzazione della risposta da parte del prigioniero.
  • Concettualmente se questa impostazione potrebbe essere ritenuta valida, nascono però altri 2 problemi. Il primo, discutibile ancora nel perimetro della sociologia, riguarda il mantenimento dell’attivismo emotivo (che non è sovraeccitazione) mentre il secondo rientra nella prassi medica perché intacca la posologia farmacologica.
  • Mantenere in attività un organismo umano su alti livelli d’impegno emotivo, richiede la presenza di un partner (ambito di coppia) educato a quelle nuove necessità, che spesso gli stessi prigionieri non dichiarano. In pratica ci troviamo quasi normalmente in presenza di partner che non hanno capito cosa devono fare per dare assistenza al loro caro, perché, causa vergogna e immaturità, non viene loro detto nulla sui bisogni intimi da parte del malato/prigioniero. Ecco che qui serve un salto di qualità nella personalità dei prigionieri (un primo passaggio da ottenere tramite la teoria sociologica).

Successivamente il mantenimento dello stato di reazione emotiva alla malattia, deve essere assicurato dal partner, che assume, in questo modo, il ruolo di un “sergente dei Marines” in fase d’addestramento alle forze speciali d’attacco della Marina degli Stati Uniti noti come Navy Seal.

E’ un eufemismo, sin troppo carico, ma che inquadra perfettamente il ruolo propositivo e di sentinella, che il partner deve sviluppare sul prigioniero, profilando un duo in azione. L’uno “tortura” l’altro per essere “il meglio e di più” di se stessi, oltre quanto immaginabile. Si tratta di un training continuo e quotidiano, pena la perdita della vita in un appiattimento mentale, misto a rabbia sociale e invidia, come si osserva frequentemente nei casi studiati in Italia. Emerge da questo punto in poi, come la presenza di un partner “militarizzato” e una comunità virtuale come reale di sostegno, siano quegli elementi di conforto indispensabili alla riabilitazione emotiva di un malato verso lo status di prigioniero. Il quadro si complica, ma non è ancora impossibile da gestire, pena la perdita di una vita degna d’essere vissuta. Riassumendo, per una reazione importante al male, serve un partner vivace e una comunità di riferimento, che svolga un ruolo sia propositivo sia di sorveglianza nell’evoluzione emotiva del prigioniero.

  • Manca un passaggio: quello farmacologico. E’ stato osservato nei pazienti italiani, una sorta d’intossicazione da farmaco che blinda e chiude la mente dei malati lasciandoli in una sorta di letargo, come mettere dei chiodi per blindare la bara. L’affermazione è forte e trova conferma nei dolori che il prigioniero da Parkinson subisce all’indomani delle forti emozioni vissute seguendo la prassi sociologica. Qui la ricerca sociologica deve cedere il passo alla medicina.

La medicina alternativa: intervista a un ricercatore eroico

La dott.ssa Giulia Cristina Pinolo Sacchi è ancora tumefatta dalle percosse subite dai cinesi essendo rientrata in Cina dopo esserne stata espulsa. Il suo crimine è aver tradotto la Bibbia in cinese. La dott.ssa Sacchi è dovuta rientrare in Cina per recuperare i suoi appunti di studio maturati in 20 anni di medicina applicata. Oggi la Sacchi, per riprendersi dai colpi e fratture ricevute, si trova rifugiata in Corea del Sud.

Domanda: Dott.ssa Sacchi, lei di fronte alla teoria de “Il prigioniero da Parkinson” parla di omeopatia, può per cortesia sviluppare il suo pensiero per noi anche scrivendo con una mano sola causa le fratture subite e i 39° gradi di febbre che sta soffrendo?

Sacchi: grazie per l’opportunità che mi si offre nel poter partecipare alla teoria nota come “Il prigioniero da Parkinson”, che sto studiando da qualche mese e discutendo qui in Corea del Sud. Per cercare ipotesi di risoluzione al problema di un sovra dosaggio farmacologico nei prigionieri di Parkinson, propongo la terapia omeopatica forte di studi specifici.

Non ripeterò mai abbastanza come dalla natura, nel nostro corpo e spirito, abbiamo già tutto quanto necessario per curarci anche se questo concetto non lo vuole capire nessuno, perché è più facile drogarsi con massicci interventi farmacologici.

La medicina cinese e la cultura Auyrveda, nella omeopatia ci vengono in aiuto: Ginko, Biloba e Macuna Pruriens sono delle erbe che aiutano sia la circolazione sia la reattività neuromuscolare, perché la Macuna contiene Levodopa, ovvero un aminoacido precedente la Dopamina. Mi sono noti gli studi in Occidente, che pongono in guardia sulla Mucina Pruriens in merito all’insorgenza del cancro, il mio riferimento è alla cultura indiana e cinese, dove non c’è traccia su questa ipotesi, comunque da prendere in considerazione, forse per i diversi stili alimentari occidentali. Altro aiuto è dato dall’assunzione di Q10, coenzima che produce energia cellulare aiutando la respirazione. La vitamina C inibisce la formazione di radicali liberi, evitando un precoce invecchiamento.

Non va trascurata la fisiokinesiterapia, perché di grandissimo supporto al quotidiano. Tai Chi, Yoga e Agopuntura, migliorano la conduzione neuronale e di conseguenza la vita personale e relazionale del malato.

Concludendo c’è da considerare una diversa via alla cura del Parkinson, che fatica ad entrare nelle menti di prigionieri, perché già intaccate dalla potenza del male che preclude una nitida visione della residua vita. In pratica dei vivi in attesa di finire la vita che soffrono con ira e ostilità, rassegnazione e iper reazioni disordinate, al resto della loro esistenza. Non sono ovviamente tutti così i pazienti di Parkinson, ma la tendenza è nota. Il Parkinson ti spegne la vita e noi dobbiamo reagire!

L’iperattività sessuale indotta dai farmaci nel malato di Parkinson

Pare che sotto effetto dei farmaci, le donne colpite dal Parkinson (non si hanno ancora risconti consistenti sui maschi, che restano a livello episodico) subiscano un disordine nei comportamenti sessuali attraverso i quali si pervenga a un’iperattività, spesso rivolta oltre il solo partner, che solitamente è incapace d’adeguata risposta, perché non educato nella precedente vita affettiva. Ripeto: è solo un abbozzo di studio in fase di raccolta dati e testimonianze, dove la difficoltà risiede nel cercare di capire quanto questa reazione sia comportamentale e quanto invece spinta dal supporto farmacologico.

Certamente gli effetti pratici, sulla stabilità di coppia sono terribili, perché a mariti incapaci di capire e reagire (immaturi) si contrappongono atteggiamenti femminili decisamente vivaci e bisognosi di “cibo” emotivo consumando (bruciando) emozioni. In questo la sociologia della sessualità ha già le sue risposte osservando un naturale e rituale capovolgimento degli appetti sessuali nelle donne over 50 anni post menopausa, tale da disorientare i consorti. Quest’abituale dinamica intima, pare che nel caso del Parkinson subisca una forte accelerazione, che assume aspetti destabilizzanti se i coniugi non fossero preparati. A volte le conseguenze sono anche la separazione della coppia, purtroppo decisa non capendo e conoscendo tutte le conseguenze e forze in atto.

Siamo comunque in presenza di vittime, che o sopraffatte dal dolore o per reale effetto della cura, reagiscono anche sessualmente (è una delle funzioni vitali come ci insegna la psicanalisi) al dramma. La fase di raccolta dati è aperta con studi provenienti sia dalla sociologia della famiglia, sia dalla sociologia della devianza sia infine dalla sociologia della sessualità per formare una nuova ricerca, che si possa chiamare sociologia del dolore, in cui far confluire la teoria nota come Il prigioniero da Parkinson.

Sprovvisti di una cultura del dolore

Colloquiando con 80 università statunitensi, nelle rispettive facoltà di sociologia, in merito alla teoria sociologia connessa al tema de Il prigioniero da Parkinson, emerge come lo studio del dolore o comunque della malattia sia ancora poco approfondito.

Di fronte alle intense ricerche svolte sulla sociologia della famiglia, della fecondità e altri temi interessanti non è stata ancora maturata un’adeguata coscienza sulle trasformazioni che subisce la vita affrontando il dolore in malattia e vecchiaia. Lo scopo della sociologia è quello di comprendere come cambia il comportamento umano in presenza di determinati fattori. Certamente la religione e il senso religioso, hanno una grande importanza nel modo di relazionare degli uomini e delle donne tra di loro e verso la divinità (vedi tutte le guerre di religione sofferte negli ultimi secoli e a tutt’oggi la presenza del fondamentalismo nella vita moderna). Il riferimento qui corre alla religione perché uno dei temi più dibattuti nella sociologia classica. Infatti, in ogni organico di tutte le facoltà di sociologia, è sempre presente uno o più professori dedicati alla sensibilità religiosa e ai suoi effetti sulla società. Questo vale anche per la sociologia economica, la fertilità, il lavoro. Spesso si notano delle cattedre dedicate alle aree emergenti del mondo e poi? E poi basta. Il dolore non è contemplato, al momento, come causa di modificazione del comportamento umano.

E’ anche vero che il primo impatto della sociologia con la malattia, almeno in Italia, relativamente al Parkinson si è avuto appena e casualmente, nell’ottobre scorso, 2014.

Senza spendere troppe parole sull’ovvio, è inequivocabile che la malattia e il dolore hanno una potente influenza sulle relazioni umane, il cui mancato studio esprime una tendenza culturale che esclude il brutto, la morte, la sofferenza dalla considerazione ordinaria e consumistica.

C’è ancor di più nella ferrea volontà da parte della medicina di monopolizzare ogni aspetto connesso con la sanità in genere, dove sono stati fatti passi in avanti dalla psicologia, pur restando limitati alla personalità del malato, trascurando gli effetti familiari e sociali dove si concentrano le peggiori conseguenze.

In nome della civiltà è quindi necessario che si apra lo studio sociologico della malattia, soprattutto applicato a quelle patologie di lunga durata che cambiano il comportamento delle persone e delle famiglie, considerando l’alto costo monetario per le cure e la ridotta sensibilità alle emozioni tra partner. Su quest’ultimo aspetto si è concentrata una parte importante della teoria sociologica nota.

Dagli studi svolti, il prigioniero solitamente si vergogna del suo stato e in questo si limita nella relazione affettiva. Non solo, nel nascondersi/limitarsi, non educa a sua volta il partner, che resta privo d’informazioni su come aggiornare il suo comportamento affettivo. Dalla ricerca emergono, come già accennato, anche casi all’opposto d’iper reattività sessuale, realizzati comunque da personaggi con gravi problematiche di relazione di coppia, che cercano altrove quanto non sanno più ottenere dalla loro unione affettiva.

La malattia è sempre un punto di vertice, nel bene come nel male, per ogni sentimento vissuto nella coppia; forse la prova del nove dell’algebra applicata alla vita degli umani.

In nome della qualità di un buon vivere anche in malattia e nel dolore, che sono parte integrante dell’esistenza umana, è sano che la sociologia si assuma la sua responsabilità, studiando modelli di comportamento adeguati: servono cattedre nelle nostre università dedicate alla sociologia della malattia.

 

The Prisoner of Parkinson

Il prigioniero da Parkinson: ottusità e rieducazione nell’uso del tempo. La 35° ora.

In Italia è stata osservato e studiato un atteggiamento molto curioso da parte dei malati di Parkinson. Il prigioniero, convivendo nella malattia per lungo tempo ed essendo questa patologia di natura squisitamente nervosa, fa assumere al paziente una sorta di assuefazione e complicità, che lo porta automaticamente al vittimismo, chiedendo a tutti attenzione e compassione, mista a invidia e rabbia per chi non ne è affetto. Si tratta di un atteggiamento particolarmente diffuso e degno di studio.

Si delinea, in questo modo, uno degli aspetti più difficili e drammatici nella cura al Parkinson: l’ottusità del paziente a ogni forma di reazione e la sua determinata quanto voluta negatività a ogni cambiamento. Brillano su questo percorso di ricerca alcuni casi meritori di menzione:

  • una Signora affetta da meno di 10 anni dichiara: sto bene e sono seguita da un’ottima neurologa per cui non ho bisogno di nulla di nuovo nella cura al mio male anche perché con l’uso di droghe leggere mi sento a mio agio sotto controllo della mia neurologa di Milano;
  • una ragazza, d’appena 20 anni, affetta da quando era bimba, oggi reagisce in ogni forma possibile scatenandosi in un turpiloquio esistenziale e liberatorio. In effetti questa persona rappresenta l’esempio cardine di tutta la teoria sociologica, perché finalmente abbiamo un paziente da elevare al rango di prigioniera che vuole evadere dalla sua condanna. Nel caso specifico, abbandonata a se stessa, la ragazza va invece aiutata e spronata nel passaggio dalla rabbia alla costruzione di una sua personalità In questo caso la ragazza si riconosce sia nel canto (è molto brava) sia nel turpiloquio. E’ un’idea.
  • Va rammentata quella Signora, affetta che non sa o vuole educare il marito alle sue nuove necessità, indotte dalla malattia, perché si vergogna. Ne è derivato un importante sbandamento della loro coppia e famiglia. Alla domanda perché non si facesse consigliare, la Signora risponde: non sono capace di chiedere aiuto.
  • Simpaticissima un’altra signora, vittima del Parkinson dall’età giovanile (oggi è nonna) che per abbracciare la pratica della nuova teoria sociologica, ha deliberatamente ridotto l’impatto farmacologico nonostante le sia stato sconsigliato e detto di consultarsi con i medici i quali, restando scettici, non sanno dialogare con la paziente. Risultato pratico, la Signora ha voluto ed è riuscita a ridurre l’impatto farmacologico per alzare la capacità di sentire, capire, affrontare, dialogare e discutere. Si dovrebbe ora qui aprire un’analisi critica tra impatto farmacologico e qualità dell’esistenza.
  • Disarmante quel signore affetto da Parkinson che afferma: sono singolo, quindi non posso aderire alle nuove teorie sociologiche.

Il prigioniero da Parkinson, presentandosi sostanzialmente ostile alle novità, accende una luce sul suo essere ingiustamente vittima di un grave dramma, per cui richiede attenzione, senza per questo impegnarsi nell’educare chi sta vicino ai suoi nuovi e veri bisogni. La trappola è perfetta.

Serve una precisazione: si definisce malato colui che resta passivo verso il morbo, mentre viene elevato al rango di prigioniero quel paziente che lotta con determinazione contro il male, per imporsi nella dignità di un ruolo umanamente considerabile.

La teoria sociologica, applicata alla malattia di Parkinson, serve per favorire il transito dallo stadio di malato a quello di prigioniero e in questo processo, il primo formidabile ostacolo, si trova esattamente nel comportamento del paziente, che non vuole reagire, restando rassegnato e rabbioso.

Infatti il nervosismo e la rabbia, spesso mista a reazioni offensive verso familiari e studiosi, è uno dei passaggi più volte registrati nell’esperienza italiana, a cui si aggiunge un tradizionale atteggiamento di conservazione oppressivo, da parte della struttura medica e delle associazioni di categoria. In pratica una cappa, a protezione dell’inamovibilità sociologica del malato.

Fotografata in questo modo la situazione italiana, dalla quale non emergono al momento elementi di novità se non altrettanto critici, va però segnalato un passaggio importante della teoria sociologica maturato con i pazienti. Elaborando successivamente il pensiero abbozzato con una poetessa italiana, sofferente di Parkinson, ma anch’essa afflitta dalla malattia della diffidenza e del bisogno di vittimismo strutturale, nasce il confronto e concettualizzazione tra “il tempo della vita comune” e “il tempo che scorre nel Parkison”.

Facendo un esempio: nella vita comune si guida l’auto, risponde al cellulare e si pensa a diverse cose e tutte allo stesso tempo. Sulla bontà della contemporaneità di queste azioni svolte tutte allo stesso tempo, francamente c’è molto da discutere. Infatti le persone non affette dalla malattia, sono spesso stressate e infelici.

Il malato di Parkinson, essendo colpito da una malattia nervosa, per meglio gestire le sue diverse reazioni, dovrebbe ridurre la quantità di cose svolte nell’unità di tempo, rinunciando alla massa nervosa necessaria per fare tutto e bene.

Ancora un esempio. Una persona sana si permette il lusso di fare 5 cose al minuto (restando vittima e sotto stress). Il prigioniero da Parkinson (ecco che qui inizia la reazione alla malattia) dovrebbe svolgere 3 o 4 azioni nello stessa unità di tempo. Il malato (colui che non reagisce) concretizza 2-3 atti al minuto.

Nel caso questo concetto fosse condiviso, si dovrebbero ipotizzare comunità di rieducazione alla gestione del tempo, in ambito Parkinson, dove l’unità di misura delle ore, per scandire il giorno, non è più caratterizzato da 24 ore ma da 30 o 35. Quest’ultimo è ovviamente un aforisma, per individuare la necessità di stabilire tempi e modi diversi per la cura del Parkinson in comunità specificatamente organizzate e autogestite da prigionieri.

Cercando e ricreando questo tempo diverso (e più umano), dove il prigioniero da Parkinson potrebbe trascorrere la vacanza, nasce quella socializzazione e umanizzazione del dolore, necessaria alla cura per una malattia dalla quale non si guarisce, ma è saggio conviverci, non in forme passive, evitando di restare cavie di un male.

La teoria sociologia per il Parkinson prosegue nello studio di una diversa modalità di uso del tempo, sperando nella costruzione d’apposite comunità dove coltivare la terra, pescare, giocare o semplicemente passeggiare, mano nella mano al partner, riaprendo la corretta comunicazione epidermica di coppia, per educarsi ai nuovi bisogni del prigioniero.

Ovviamente la teoria sociologica non si esaurisce nella sola rimodulazione del tempo che ne rappresenta un aspetto.

Come già descritto in altri interventi nella sociologia s’intende riaccendere l’orgoglio nel paziente assuefatto alla malattia attraverso:

  • una personale e intima reazione al male, da parte dell’ex paziente ora divenuto un prigioniero che vuole fuggire, attraverso la valorizzazione degli aspetti specifici della sua personalità;
  • l’educazione da proporre ai familiari, amici e partner ai nuovi bisogni senza più vergogna;
  • la condivisione in comunità reali e virtuali della propria condizione;
  • la maturità sul piano fisico e sessuale, intesa in termini comunicativi anziché di mero e solo consumo, al fine di trasmettere e ricevere epidermicamente un nuovo status d’intimità nella coppia. Questa fisicità deve sostenere nei tremori e difficoltà tipiche di questa malattia che essendo nervosa, richiede una nuova cultura emotiva e di relazione intima solitamente dimenticata nelle coppie soggetto a questo dramma. E’ come dire che a una malattia del sistema nervoso si contrappone una nuova e più intensa realtà emotiva e tattile.

Questi sono i passaggi della teoria sociologica al Parkinson maturati in ambito di sociologia della famiglia, della devianza, della sessualità e militare.

Il prigioniero da Parkinson quando entra in simbiosi con la sua stessa malattia

Il Parkinson è una brutta malattia, ma lo sono anche l’Alzheimer, il cancro, la leucemia e altre perchè tutte trasformano il malato in un corpo ospite conducendolo a morte. Il brutto di queste patologie, non consiste nella loro esistenza e lunghezza nel corso degli anni, ma nel riuscire a trasformare il paziente in uno schiavo per l’integrale residuo vita.

Mentre la cura, in termini chimici, è di pertinenza della medicina, ad altra scienza compete il riscatto del malato, ovvero quella capacità di reazione che sola è in grado di consegnare la titolarità di “essere umano”. E’ ancora un essere umano colui che reagisce. E’ invece ormai uno schiavo, spesso una larva umana, quella persona che ha abdicato al male lasciandosene divorare. In pratica il paziente diventa cibo per la malattia se non reagisce. Per quanto crudo e spietata sia questa visione (c’è una oggettiva reticenza nel dirlo in chiaro ai malati che vengono così lasciati – abbandonati – in una terra di nessuno) la vera domanda è un altra: è possibile reagire?

Prima di tutto, e specificatamente sul Parkinson, nella cui area sono stati svolti questi studi, va fatta un’importante distinzione:

  • è malato o paziente colui che soggiace alla malattia riducendosi a diventarne “cibo”;
  • è considerato un prigioniero che evade, quel malato che reagisce per confermare la sua dignità d’essere umano contro la malattia. Per farlo ricorre a ogni tipo di “appiglio” possibile sia questo culturale, relazionale, intellettuale, emotivo e sentimentale. Il prigioniero da Parkinson è un personaggio che impone alla malattia la sua specificità di carattere. Questa reazione nasce dal singolo ex paziente, oggi evoluto a prigioniero, ma va aiutata sia in ambito reale sia virtuale attraverso la frequentazione di comunità, scrivendo, dipingendo, passeggiando, fotografando, pensando, amando meglio e di più il partner, educandolo a non vergognarsi del coniuge ammalato, a riaprire una sessualità comunicativa di coppia che non si limiti al mero atto fisico. In questa contro offensiva del prigioniero, secondo la teoria del Prigioniero da Parkinson – The Prisoner of Parkinson, si ristabilisce quell’equilibrio perduto tra l’essere una larva (cibo per la malattia) e il reagire con dignità e fierezza. Il Parkinson è stato abbattuto in questo modo? Sotto il punto di vista chimico e medico no, in termini di relazione umana e di dignità SI. Ecco a cosa serve la sociologia nel Parkinson attraverso le sue nuove teorie.

Chiariti questi passaggi, del resto già noti nella dottrina, ora il punto più importante è capire quando la malattia corrompe la capacità di resistenza del malato se questi non evolve in Prigioniero. Ebbene si conferma sempre di più come 6 mesi siano sufficienti per l’involuzione e la trasformazione del corpo del paziente in convivenza e complicità alla malattia. Giunti a questo stadio d’interazione malattia-paziente, è certamente possibile tornare indietro, ma a costi umani molto più sostenti rispetto a una procedura d’aggressione iniziale. Qui si spiega l’eccesso d’ostilità che l’ambiente del Parkinson italiano ha riservato a questo tipo di riflessioni, ostacolandone in chiaro il semplice confronto.

Come mai e perchè accade che chi dovrebbe essere deputato alla ricerca e al benessere dei pazienti, si schieri così apertamente e senza analisi, contro delle nuove prospettive? E’ un mistero! Però quest’anomalo atteggiamento ha una sua spiegazione dove giustifica e accoglie la mentalità dell’assuefazione rispetto quella del riscatto.

L’aver esclusivamente delegato alla medicina la lotta contro la malattia, è una responsabilità che il Parkinson italiano si assume e anche quello d’aver pensato a una sociologia riduttiva e limitata alla conta dei pazienti in Italia e al suo livello di cura medica. In pratica è stata presa una Lamborghini per andare a fare la spesa al supermercato. Questo è il degno paragone per spiegarsi. La responsabilità non è solo dei sociologi, che hanno partecipato a una visone ridotta della dottrina sociologica, ma dello stesso Parkinson italiano che non ha vigilato, indirizzato, capito, consigliato.

Al netto delle riflessioni sulle mancate opportunità che non sono state colte dal Parkinson italiano, resta il problema di fondo: dopo 6 mesi dalla diagnosi, la capacità di restare umani, in un malato di Parkinson è sostanzialmente corrotta, entrando in una assuefazione-convivenza con il male. Va riconosciuto però come questo recupero NON è mai da considerarsi impossibile! Mi spiego meglio. Anche il malato da Parkinson, affetto da decine di anni è in grado di riscattarsi, certamente con un impegno maggiore rispetto gli altri, ma ce la fa! Questo è sensazionale! Significa che la ribellione al male cova “sotto le ceneri” della sofferenza; il pur essere diventati “larva per la malattia” NON esclude la riabilitazione allo stadio di prigioniero dal precedente livello di malato. Ovviamente questo riscatto richiede aiuto, amore, pazienza, ascolto, in pratica richiede di una procedura che è quella tipica della sociologia del dolore, pain sociology.

Gli strumenti ci sono e vanno affinati, perfezionati, condivisi e sperimentati ancora e ancora. Basta usarli per conquistare uno stadio d’umanità nel dolore.

Studiando la fine della vita

Intorno al Parkinson chissà perchè tutti si arrabbiano! Questa irascibilità è stata studiata attentamente e indica diversi aspetti che sono:

  • difesa d’interessi di parte, in quanto anche nella malattia ci sono i “partiti”;
  • un grave livello d’immaturità che è indotto, secondo la teoria Il Prigioniero da Parkinson, dalla convivenza con la malattia;
  • dall’illusione che basti la medicina per curare il corpo, il che sarebbe vero quando si parla di massa corporea, ma che diventa meno assoluto se ci si riferisce al sistema nervoso, che segue regole diverse;
  • Il combinato disposto di questi e altri elementi, non consente al sistema di ragionamento riconducibile alla teoria The Prisoner of Parkinson, di poter essere preso in esame dalla stragrande maggioranza di malati, ma solo una limitata parte, che cerca se non la guarigione, una dignitosa convivenza con la malattia. Un contesto in corso di studio nella teoria del Prigioniero da Parkinson, che interessa anche la sociologia del dolore la nuova frontiera di un modo di pensare innovativo.
  • Assodato e capito che è sufficiente un semestre di convivenza con il male per risultarne convivente, significa averlo accettato come una presenza strutturale, per cui reagire alla malattia significa in un certo senso colpire se stessi. Ecco come si spiegano le isteriche prese si posizione degli stessi malati di Parkinson alla teoria The Prisoner of Parkinson;
  • Nel momento in cui malato e malattia tendono a confluire nella stessa dimensione, la guarigione diventa impossibile e si può solo parlare, al massimo, di qualità di vita;
  • E’ possibile guarire dal Parkinson? Con le attuali cure che partono dal considerare il sistema nervoso come un elemento corporeo da curare chimicamente NO, non c’è scampo. Nel momento in cui la scienza dovesse accettare un punto di vista interdisciplinare, dove al medico si affianca anche il “medico della mente” che non è solo un neurologo, ma la coppia psicologo (già esistente) e sociologo (non ancora considerato) allora gli strumenti per la gestione della malattia cambiano radicalmente. Nel dettaglio non può trattarsi di un sociologo qualsiasi, ma dev’essere addentro alla sociologia della famiglia, della devianza e della sessualità. Ecco la triade di formazione che necessita al sociologo inserito in un team di lavoro nella teoria The Prisoner of Parkinson;
  • Che cosa è in grado d’offrire un sociologo in ambio di Parkinson che non sia stato studiato sino ad ora? Riprendendo l’impostazione di Sigmund Freud emerge come la sessualità non sia affatto limitata alla nota gestualità fisica, ma risponda in realtà a una sensibilità interiore nella comunicazione affettiva, per cui si guarda all’altra parte del cielo in modo diverso, si pensa in forme più ampie, si riceve e offre in forme propositive più accese. Ovviamente chi sta leggendo, penserà immediatamente al sentimento amoroso, il che è vero. La sessualità è una forma espressiva del sentimento. Si può fare sesso senza amore? ovviamente si, ma a quel punto ci si limita allo stadio inferiore e sostanzialmente animalesco del sesso, la parte meccanica e meno nobile, appunto quella animale. Nel momento in cui la sessualità è da considerare un sistema di comunicazione che si estende dalla parte meccanica-animale a quella evoluta ed umana, diventa ENERGIA.  Se stiamo parlando di ENERGIA e la introduciamo come sentimento (non necessariamente allo stadio fisico se non in forme gestuali) nel fine vita, la durata dell’esistenza possibile aumenta. In un contesto di amore, carezze e anche gioco, chi dovrebbe morire in 4 mesi riesce a viverne 12 (ci si sta organizzando per tempistiche più lunghe nel tempo). Si parla di carezze, delicatezze, battute di spirito, allusioni, sguardi, l’odorarsi, il toccarsi che esprimono quelle fasi pre-rapporto che accendono la reattività umana: non è importante consumarle come solitamente avverrebbe in una vita normale e completa quindi sana. L’accensione dell’emozione produce ENERGIA. Qui la sociologia del dolore dispiega l’intero bagaglio di conoscenze che vengono capitalizzate nella teoria The Prisoner of Parkinson;
  • Nella teoria del Prigioniero da Parkinson, s’introducono queste attenzioni, anzi meglio detto, si esorta l’uso dell’ENERGIA sessuale come cura per il sistema nervoso danneggiato in un contesto di coppia già consolidato nel tempo. L’applicazione di queste attenzioni nel lungo tempo è stato già sperimentato, ma necessita di un impegno maggiore nella ricerca, quella del Prigioniero da Parkinson, per studiare meglio le connessioni di causa-effetto tra ENERGIA sessuale e la reazione nervosa nell’ambito del Parkinson e probabilmente in patologie similari di una malattia che dura tutta la vita (da cui il termine “prigioniero”). Comunque prima che la scienza si svegli dal suo torpore e protezione d’interessi, è saggio che le coppie colpite dal morbo di Parkinson, reagiscano introducendo nuovi livelli d’intesa sessuale per curare il sistema nervoso del prigioniero.

Perchè un malato di Parkinson, che dovrebbe essere più che interessato alla gestione del suo dramma, si rivela invece ostile alle nuove cure?

 Tutti gli sforzi della nuova teoria sono diretti nel tentativo di far “evadere” la persona dalla sua condizione, ovvero di una malattia senza via di ritorno. Qui c’è l’ostinazione a cercare la persona nel malato. Lo stato della scienza, a oggi non consente una reale guarigione dal morbo di Parkinson, al massimo si cerca una gestione pilotata della sofferenza che comunque accompagna il paziente alla sua morte. Urgono nuove prospettive di cura perchè dal livello attualmente in uso non si riesce a progredire.

Da attente valutazioni realizzate su 18 pazienti, in Italia, emergono le seguenti osservazioni:

  1. a) quando lo stato di malattia si protrae oltre i 40 giorni avviene una sorta di “contagio” tra la parte umana della persona e quella fisica, instaurandosi una reale convivenza e complicità tra il male/malattia e la vittima (il paziente) che tende a diventare un tutt’uno in una perfetta osmosi;
  2. b) ecco lo stadio in cui la malattia è pericolosa: quando diventa un ospite dentro la persona che utilizza come scafandro o veicolo di transito verso altri (contagiosa) oppure per proseguire la sua esistenza a danno del corpo ospitante;
  3. c) il malato si conferma tale quando accoglie, suo malgrado, la malattia e ci convive. Evolve in paziente quando accetta con la medicina una reazione che delega comunque alla chimica medica, restando sostanzialmente passivo. Diventa finalmente prigioniero quando scatena una reale volontà d’opposizione alla malattia, utilizzando anche l’apporto chimico della medicina e quello psicologico. Quanti sono i prigionieri? pochissimi, la netta maggioranza preferisce il ruolo di vittima e convivenza con la malattia, da cui appunto malato. Questo è il più grande ostacolo che la teoria de Il prigioniero da Parkinson sta affrontando!
  4. d) dire a un malato: alzati e reagisci! significa urtare la sua sensibilità e quindi reagisce nelle forme più immediate e semplici: rabbia, nervosismo e offesa. La teoria sociologica, attraverso Il prigioniero da Parkinson – The Prisoner of Parkinson, diventa a questo punto un nemico da cui difendersi perchè chiama a una militarizzazione della risposta contro la malattia.

Chiarito l’atteggiamento tipico del malato che non riesce a evolvere in prigioniero e nel dettaglio nel Il prigioniero da Parkinson – The Prisoner of Parkinson, vanno fatte altre considerazioni specifiche sul Parkinson. Essendo quest’ultima una patologia che interessa il sistema nervoso, nei 18 casi studiati in Italia, si è voluto osservare/studiare il profilo comportamentale dei prigionieri (ex malati) riscontrando delle importanti novità.

Tutti i 18 prigionieri (malati) hanno riconosciuto un profilo di nervosismo “elevato” nel periodo di vita precedente alla contrazione della malattia, stile di vita nervosa che è oggettivamente peggiorata nel corso del tempo. Si profila così una nuova visione sulle cause del Parkinson, ovvero un abuso o cattivo uso del sistema nervoso che logorato, spesso dagli stili di vita, reagisce ammalandosi. E’ presto per poter affermare che il Parkinson è la malattia di coloro che non hanno saputo gestire il loro nervosismo, ma certamente l’isteria riscontrata in Italia sia a livello di malati che di Associazioni nella discussione sulla teoria, porta a questa conclusione. Com’è possibile essere scontrosi, isterici, ostili quando si discute di miglioramento della condizione di vita? La risposta logica è se si dovesse confermare il sospetto che il Parkinson esprime la degenerazione di un mal uso del sistema nervoso.

Non è possibile fare di un filo d’erba un fascio e la teoria de Il prigioniero da Parkinson desidera restare con i piedi per terra, certamente però si profila un’idea sull’origine del Parkinson, come di un pessimo uso del sistema nervoso in uno stile di vita sbagliato. Cosa sia da considerare “sbagliato” nella qualità di vita, apre una valutazione filosofica molto complessa, che trova appunto nella sociologia delle risposte, ma non è questa la sede per entrare nel merito di cosa sia sbagliato/giusto. Il prigioniero da Parkinson come assetto concettuale, accende un segnale d’allarme per chi ha la sensibilità di leggerlo nel suo personale interesse. E’ possibile che la natura del Parkinson emerga da una vita troppo tesa, nervosa in un costante abuso di tensione nervosa che alla fine porta il sistema nervoso a impazzire e ammalarsi. C’è una via di ritorno dalla crisi del sistema nervoso? Ancora non è possibile dirlo. Certamente se qualcosa si annoda in forma sbagliata dovrebbe anche essere possibile ritornare alla posizione originale, ma su questo piano la teoria non si è ancora spinta. Certo restano dei punti fermi che sono:

1 – evitare di farsi contaminare dalla malattia che deve restare, nella mentalità del malato, estranea al suo corpo: non convivere con il male!

2 – reagire al male in ogni modo e sistema (su questo vedi i concetti già espressi nella teoria de Il prigioniero da Parkinson)

3 – ripensare agli stili di reazione nervosa che ogni persona adotta nella sua vita, sapendo che un abuso di nervosismo su base quotidiana, favorisce senz’ombra di dubbio la crisi del sistema nervoso;

4 – troppo spesso si nota come le persone affrontino la vita con un’importante dose di tensione nervosa anziché usare il cervello e il pensiero. Detto in altri termini riscontrando una drammatica contrazione del livello culturale medio nella società, si nota una corrispondente elevazione della risposta nervosa come metodo di relazione sociale. Spesso la gente abbia più che ragionare. In ciò si usano di più i nervi anziché il cervello. Da un abuso di risposta nervosa, in luogo di sentimenti e idee, che dovrebbero scaturire dalla parte intellettiva della persona, emergono anche un maggior numero e intensità di malattie del sistema nervoso di cui il Parkinson e parte. Forse sarebbe saggio alzare il livello intellettivo leggendo di più, studiando di più, capendo di più, ma anche amando in forma più sana, pensando di più per essere più sani e gestire al meglio la propria vita, anziché soffrire di malattie che derivano dall’abuso di nervi al posto del cervello.

Viene in mente quella coppia di Milano con lei affetta dal Parkinson che usa droghe leggere, sotto controllo e consiglio del neurologo per meglio convivere con il Parkinson. Ebbene, una risposta di questo tipo al Parkinson, nel contesto della teoria de Il prigioniero da Parkinson è completamente sbagliata perchè amala l’anima e il sistema nervoso del paziente. Per gestire, non si dice guarire, dal Parkinson, servono persone sane (prigionieri). Dove si trovano?

 

Una persona che segue la Teoria The Prisoner of Parkinson recandosi a un congresso medico desidera esporre delle teorie innovative. Cosa vuol dire The prisoner of Parkinson?

 I concetti:

1 – Solitamente il malato è un prigioniero, (da cui la teoria della liberazione nota nel mondo come The Prisoner of Parkinson) ovvero vuole sentirsi vittima e desidera essere compatito con poca propensione ad evadere dalla sua condizione;

2 – pazienti convinti d’essere malati “senza scampo” sono già a fine vita;

3 – se si riuscisse ad organizzare una reazione, questa va organizzata e sostenuta dal partner, amici reali e virtuali che siano;

4 – nel caso di una reazione alla patologia, in quel caso, l’apporto farmacologico diventa veramente importante. In caso contrario ha ovviamente il suo risultato, ma spesso finalizzato a garantire un’agonia. Qui si apre una grande contestazione alla medicina che al massimo considera la psicologia anziché la sociologia. Dove la differenza? Lo psicologo aiuta la persona ma il dolore (qui si entra nelle nuove teorie di Pain Sociology) ha un effetto anche nelle relazioni familiari e sociali. Se questo è vero, il dolore non può più essere curato nella singola persona ma, colpendolo al contrario, nella sua manifestazione “sociale” quindi nel rapporto con il coniuge, i figli, parenti e amici. Ecco che il sociologo entra in campo, nel momento in cui spostiamo l’ottica dal singolo personaggio in sofferenza, alle sue relazioni “sociali” inclusa quella intima con il partner. Il compagno di vita ha, nella teoria un ruolo strategico e fondamentale nella cura del malato;

5 – l’organizzazione della risposta personale (sostenuta da chi è vicino al prigioniero) si chiama militarizzazione;

6 – per avere un sostegno alla militarizzazione nella risposta al Parkinson, il prigioniero deve EDUCARE chi ha vicino a sé al fine d’insegnargli cosa e come svolgere la sua azione di supporto. Detto anche in altri termini, il prigioniero da Parkinson dove smettere di vergognarsi;

7 – in realtà le malattie riconducibili al sistema nervoso, oltre le ovvie cause “di natura”, sono formidabilmente indotte da un sistema di vita che ha fatto del nervosismo un atteggiamento di fondo portando a logoramento il sistema da cui, a livello di concausa, abbiamo il Parkinson e altre patologie annesse. Detto più semplicemente, stiamo discutendo su ceppo di malattie che segue la degradazione dei tempi moderni, dove ad esempio, si guarda ma non si capisce, si discute ma non parla, si litiga senza ragionare. Tutto sommato un tumore dell’epoca moderna e globalizzata (aspetto morale). Se questo passaggio è condivisibile, gli strumenti per la cura non sono solo più riconducibili alla medicina, ma includono nuovi interlocutori che sono sia lo stile di vita personale sia la sociologia;

8 – con una militarizzazione della risposta alla malattia, (impegno personale) in più con l’interdisciplinarità dei punti di riferimento (medicina + farmacologia + sociologia) il panorama di risposta alla malattia cambia completamente. In questo modo, si modifica anche la tollerabilità al disagio da parte del paziente che diventa più vivace, vivo, intellettualmente motivato, reattivo, forte, presente e vivo. E’ questa una guarigione? No non lo è, però fa la differenza;

9 – cosa vuol dire militarizzare la risposta al male in ambito di The Prisoner of Parkinson Significa un’estrema valorizzazione di se stessi in ogni carisma possibile e immaginabile. In questo Rinascimento un posto d’onore spetta alla dimensione fisica e sessuale solitamente abbandonata o trascurata o ancor peggio ridotta a un mero consumo di momenti (gradevoli) ma che iniziano e finiscono. Sotto quest’aspetto c’è un’educazione alla fisicità e sessualità da ristabilire;

10 – militarizzare significa:

  • pensare di più,
  • vivere di più,
  • guardare di più,
  • ridere di più,
  • leggere di più,
  • amare di più,
  • fotografare di più,
  • viaggiare di più,
  • e ancora di più, quindi di più e di più.

11 – che fine fa la medicina e la farmacologia? resta molto importante ma considerata un ausilio stando attenti a non intossicarsi! Ora si capisce di più l’ostilità ufficiale alla Teoria The Prisoner of Parkinson che punta alla contrazione nell’uso-abuso di farmaci!

12 – chi è il vero interlocutore per questo Rinascimento del prigioniero? se stessi. Riportare al centro del tutto la persona, quel prigioniero che oggi è ridotto a essere solo un paziente, un malato, una cartella clinica.

Dialogo on line con un prigioniero applicando la teoria The Prisoner of Parkinson

Un contatto di facebook dopo aver letto la Teoria del Prigioniero di Parkinson – The Prisoner of Parkinson, nel sito www.giovannicarlini.com chiede: allora i nervi li dovrei curare io anziché la medicina? Ecco la risposta

Si hai centrato il tema, i nervi saltano non tanto perchè sono logori, ma in quanto è la vita che stiamo conducendo che li logora. Ovviamente servono i farmaci, ma innanzitutto necessita un reale cambio di vita nella sua effettiva qualità.

Nella serie di modifiche da apportare, nello stile dell’esistenza che conduci, la parte corporea è fondamentale e qui mi riferisco a quelle parole che tanto ti scandalizzano come corpo, nudità, sessualità, sesso, nudo, affetto, intimità, percezione epidermica delle emozioni (quest’ultimo aspetto è strategico imparando a sentire sulla pelle le percezioni emotive) Mi dispiace usare parole che cozzano con la tua tradizione dove ti scandalizzi in un moralismo fuori luogo, ma il corpo non l’ho inventato bensì Dio, ed è il corpo che si ammala da cui la reale possibilità di salvarsi/gestire la malattia, con un eccezionale impegno su te stesso. Certamente fai affidamento su un supporto farmacologico, questo è chimicamente necessario, ma non basta, perchè serve un indispensabile apporto morale, che solo tu puoi fornire. Ecco perchè sei un prigioniero e in particolare un prigioniero da Parkinson.

In merito alla ricerca sperimentale che chiedi se esiste, è già stata sviluppata su un paziente italiano di Bologna, il paziente zero, come avrai letto negli studi pubblicati che sarebbe dovuto morire ma applicando la Teoria del Prigioniero da Parkinson ha reagito rinviando il suo appuntamento finale con la vita. Vuoi essere tu il paziente prova successivo? Sappi che mi addolora sapere che piangi e stai soffrendo, ma i nervi li salvi “con te stesso” non con i medici, i quali possono aiutarti ma non salvarti, possono rallentare, ma non guarire.

La guarigione è solo dentro di te, forse non assoluta, perchè dipende dalla qualità del danno, ma sei tu e solo tu che puoi lenire, gestire, ridurre l’entità dell’offesa che il sistema nervoso ha subito pur ricorrendo alla medicina e ai farmaci che ti aiutano, ma non risolvono al posto tuo. Questa impostazione non piace a nessuno e sai perchè? scardina il mondo della medicina che lo porta ad essere di supporto e non più principale interlocutore del paziente e scoccia ai malati (quest’aspetto è sorprendente) perchè li costringe a non sentirsi più vittime ma guerrieri e questo è un contro senso. Quando chiedi di reagire a un prigioniero da Parkinson ti guarda storto perchè “non lo rispetti”. Ecco che è lo stesso prigioniero, (appunto prigioniero da Parkinson) il vero e principale ostacolo alla nuova terapia, che non crede (forse non ha mai creduto) in se stesso, ma si è limitato alla relazione sociale che lo circonda.

Sociologicamente parlando, le diverse malattie dei nervi, incluso il Parkinson e altre, sono patologie dei tempi attuali, dove l’uomo “moderno” è in realtà così fragile che si ammala di se stesso. Lo so è un ragionamento moralistico che non interessa nessuno allo stadio nel quale ci si trova. Come reagire? Tanto per iniziare devi essere convinto che puoi e vuoi reagire (questo è il principale ostacolo) dopodiché inizia una riabilitazione caratteriale, personale, mentale, alimentare, sessuale, intellettuale, morale, tutta da discutere passo dopo passo, dove non c’è la formula magica da applicare uguale a quella di un altro prigioniero da Parkinson, ma va definita giorno per giorno, senza però ricreare quella dipendenza (schiavitù) già in essere con la medicina. Ti auguro buon lavoro (su te stesso).

The Prisoner of Parkinson

Parkinson: separazioni e divorzi. Un coinvolgimento sociale della teoria The Prisoner of Parkinson 

Studiando gli effetti del Parkinson come causa di separazioni e divorzi, emergono, in particolare verso le donne, delle riflessioni che valgono per tutte. In particolare emerge, nel genere femminile, un comportamento molto particolare del tipo “reduce di guerra” che condiziona la ricerca di un nuovo partner. Questo comportamento non è stato notato nei maschi in pari condizioni di bisogno affettivo.

Un evento traumatico di rilevanza sociale, che s’incontra nello studio delle modificazioni del comportamento umano per effetto del Parkinson, nella teoria The Prisoner of Parkinson, sono quelle separazioni avvenute sotto l’effetto del peso della malattia. Si tratta indubbiamente di pregresse fratture maturate nel tempo nella coppia, pervenute a maturazione purtroppo e in coincidenza nel momento esatto di massimo stress di bisogno affettivo e d’assistenza che trovano nel male il motivo scatenante. Ovviamente nessuno dei coniugi separati, tra quelli studiati, gode di una dialettica aperta e schietta verso il partner, che avrebbe dovuto sviluppare in una politica d’educazione e sensibilizzazione alle nuove necessità. Al contrario sono solitamente persone che hanno preteso senza spiegare o che hanno cercato altrove quanto già avevano in coppia, oppure che sono state sopraffatte dalla vergogna degli effetti fisici che la malattia comporta. Quanto qui scritto non è per giudicare persone sole e in sofferenza, al contrario per analizzare come un fallimento di coppia riversa i suoi effetti peggiori, proprio nel momento di maggior bisogno di cure e affetto nell’organizzare quella reazione al male che la teoria esorta ad assumere per gestire la malattia.

In pratica la separazione o divorzio, sotto l’effetto del Parkinson (probabilmente sarà lo stesso per altre patologie) deriva quasi sempre da una pessima comunicazione di coppia, dove i partner sono stati incapaci di spiegarsi come educarsi l’uno all’altro. E’ facile che questa dinamica avvenga anche nei divorzi consumati fuori dall’effetto della malattia. La soluzione? Un rilancio nella comunicazione di coppia, mano nella mano, con la coscienza che si può sempre incominciare da capo finchè c’è vita.

La donna che esce da un rapporto di coppia fallito, assume un atteggiamento simile al reduce da una campagna di guerra, per cui non trova dialogo o voglia di parlarne se non con altri “reduci” dalla stessa esperienza. Si viene a creare in questo modo “un limbo” caratterizzato da sole donne che si rinforza e di conseguenza chiude al resto delle relazioni sociali. Da questo rifugio creato artificialmente e comprensibile nelle prime fasi post separazione, emerge però una personalità femminile, incapace di relazionare nuovamente con altri uomini, dai quali apprezza l’interesse, ma che non sa gestire in forme propositive. Si conferma in questo modo una donna caratterialmente passiva pur desiderando una nuova relazione.

Il fatto d’essere passiva nella relazione sociale e affettiva, non rappresenta un problema se non quando si scontra con il vero bisogno di riaprire delle relazioni affettive ardentemente richieste; è a questo punto che nasce il dolore che si traduce in sconforto.

Le donne separate si trovano, in maggioranza, in una sorta d’attesa per un qualcosa che potrebbe anche non accade pur lamentandosi della volgarità e sesso sbrigativo dei maschi verso di loro. In pratica, come spesso è stato osservato, le donne “reduci” da una separazione vorrebbero rivivere quell’intensa fase di corteggiamento, che intorno ai 20-25 anni d’età, apprezzarono per giungere al primo matrimonio. Si tratta di una richiesta comprensibile che si scontra però con uomini “stanchi”, desiderosi di concretezza senza romanticismo. In pratica entrano in collisione 2 tipologie comportamentali, una romantica e un’altra brutalmente concreta, come del resto è in tutta la storia della relazione donna-uomo, ma che in seconda ricerca di stabilizzazione, appunto in età avanzata e adulta, diventa drammatica per la passività e lo shock affettivo già subito dalle donne.

Quello che pesa nel mondo adulto femminile in ricerca di un nuovo amore, è la sofferenza subita dalla separazione, assimilato a un tradimento consumato, indipendentemente dalle effettive e comuni responsabilità tra partner. Per il solo fatto di trovarsi sola, la donna si sente tradita e violata da una sorte/marito ingrati, rimanendo comunque acritica sulle sue effettive responsabilità. Si conferma così un processo d’assoluzione che non consente l’elaborazione “del lutto” affettivo subito, confermando la posizione di vittima cui rendere onori e rispetto passivamente ricevuti. Quest’atteggiamento che si conferma sofferenza pura, impedisce alle donne “reduci” quella vivacità di quanto erano ragazze alle prese con gli stessi “maschi” concreti e brutali d’allora, che furono però educati e riportati a un livello di civiltà affettiva per sposarsi. Oggi la donna adulta scioccata dalla separazione resta disarmata, non più capace di proporre o reagire, restando passiva e impaurita, nell’attesa (spesso vana) d’essere nuovamente colte come frutto maturo da uomini “stanchi”. Che disastro sociale!

Questi studi valgono per l’intera società civile, ma quanto ha inciso il Parkinson sulla stanchezza nel reagire alla crisi?

Il dramma dell’incomunicabilità nella solitudine post – separazione. L’interesse sociale della teoria The Prisoner of Parkinson.

Di fronte a donne che vogliono essere colte, ma restano passive e uomini che hanno perso il senso romantico del rapporto amoroso, si vive un dramma che è quello della solitudine. La teoria sociologica The Parkinson Prisoner, offre una risposta riabilitando il carattere del malato in una funzione antagonistica al male anziché d’assuefazione, come solitamente avviene. In questa militarizzazione comportamentale, il prigioniero (ex malato) trova quegli elementi di riabilitazione caratteriale che sono poi quelli necessari all’atto del rilancio della relazione amorosa. Quanto osservato in ambito di studi al Parkinson, relativamente alle dinamiche di blocco della reattività femminile alle sollecitazioni maschili in età matura, si ritiene possano essere valide per la società civile più ampia.

In effetti, la maggioranza delle donne occidentali divorziate, si trova in questo incastro da mancata reazione, soffrendo di passività alle sollecitazioni definendo, in questo un problema culturale, che richiede apposite cure per insegnare a reagire nella ricerca della serenità. Purtroppo per curare chi è in crisi, serve che sia cosciente del problema, cosa che le donne oggettivamente riconoscono, senza essere però disposte a reagire, morendo d’inedia e astio da sfogare sul cibo o su un amore compensativo (quello per cani e gatti) o in altri casi sul volontariato, che sono tutti aspetti socialmente rilevanti e molto nobili, tranne la reale motivazione celando una povertà di carattere con difficoltà a reagire. Che forse la teoria The Prisoner of Parkinson scopra nuovi prigionieri da liberare? Certamente servono sempre di più degli uomini che sappiano educare le donne a reagire, come quest’ultime vogliano effettivamente elevare il maschio a uomo, operazione spesso difficile, ma non impossibile.

The Prisoner of Parkinson

Conclusioni alla teoria The Prisoner of Parkinson 

Si può reagire al dolore? Concettualmente si, naturalmente no. Mi spiego. Seguendo la natura si viene “naturalmente” resi soggetti alla sofferenza. E’ come dire che se ci dovessimo esporre al freddo lo patiamo. In realtà ci si veste. Come d’estate, esponendosi ai raggi solari si usa la crema protettiva. Ebbene, pur godendo dell’integrale gamma di protezione al freddo, caldo, pioggia etc, l’essere umano ancora non ha elaborato una strategia di risposta al più naturale compagno della nostra esistenza: la sofferenza. La teoria, The Prisoner of Parkinson, è stata studiata per colmare un vuoto.

Come si reagisce a ogni aspetto della vita è così anche per il dolore.

In questo caso, in luogo di creme o abiti, serve il carattere, la cultura, quella capacità d’elaborazione sintetica che ci permette di capire il senso di quello che siamo. Detto più semplicemente, chi ci ama, il partner, l’amante, la compagna, la moglie-marito, ama esattamente questa sfaccettatura della nostra personalità. Il chi siamo e come lo siamo, è la natura base della relazione affettiva. Per amare ed essere amati dobbiamo esporre il meglio di noi stessi e questo migliore è necessario anche in senso contrario, quindi verso noi, per alimentare la reazione alla sofferenza.

Perché reagire? Semplice! Reagendo si guarisce meglio e di più. Ecco la base della teoria The Prisoner of Parkinson.

Nel caso di malattie croniche e quelle che portano a morte (Parkinson, Alzheimer, tumore, leucemia e altre) è una questione di dignità per proseguire ad amarsi e farsi amare. Anche andando a morte, abbiamo tutti bisogno di sentirci ancora protagonisti della nostra vita, per quanto “costretti” a doverla chiudere. La morte non è bella. Morire significa perdersi in un buco nero senza ritorno. Queste cose saranno anche non belle da dirsi, ma rappresentano la realtà cui tutti sono predestinati. Ebbene che si muoia lasciando un esempio a chi ci è vicino. Siamo ormai nel cuore pulsante della teoria The Prisoner of Parkinson.

Un esempio di carattere, di produzione di sentimenti e idee. Una testimonianza che possa trasferire ad altri forza nuova, sulla quale proseguire a vivere meglio e di più. Ci sono molti modi per morire e soffrire; qui è proposto quello “fertile” necessario a dare qualcosa per cui valga la pena. Mi rendo anche conto che questo messaggio non può essere immediatamente recepito. E’ la principale difficoltà della teoria The Prisoner of Parkinson. Per questo spero, in questa vita, di poter vedere coronato un sogno: l’istituzione della cattedra di sociologia del dolore nell’interfacoltà tra sociologia e medicina.

Anche questo pensiero pare da collocare nel mondo dei sogni. Certamente una cattedra di sociologia del dolore saprebbe raccogliere le diverse esperienze per elaborarle, rilanciando modelli comportamentali. Il ricordo corre a chi, aggravato dal Parkinson, ha sviluppato una palestra di pugilato dedicata agli ammalati. Detto in altri termini è come prendere a pugni il Parkinson. Ecco, questi appunti, parafrasando, sarebbe un “prendere a pugni la sofferenza morale e fisica”. Auguriamoci buona fortuna.

 

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