The prisoner of Parkinson, studiando il progresso della malattia. Quando il male contagia il comportamento?

The prisoner of Parkinson rappresenta una teoria sociologia per la cura delle malattie di lunga durata. Lo studio è iniziato in ambito di Parkinson, ma si è spinto anche su altre patoligie di lunga durata. In pratica tutte quelle malattie che portano a morte il paziente. Infatti la traduzione italiana della teoria è: Il prigioniero da Parkinson.

Recentemente una gentile e simpatica Signora dal sud d’Italia, ha chiesto e ottenuto di partecipare al programma di ricerca. Si tratta d’aderire al protocollo rispondendo a oltre 100 interviste. Come noto, i criteri di ricerca rispondono alla sensibilità della sociologia qualitativa e non quantitativa. La differenza è sostanziale. Anzichè un questionario (sociologia quantitativa) si ascolta il paziente ricostruendone tutti i passaggi della sua vita.

Ebbene, accogliendo la Signora (del resto già conosciuta da diversi anni) si scatena un’eccezionale reazione del marito. Che il coniuge soffrisse di gelosia violenta, era già noto alla ricerca per precedenti bravate. Nonostante sia passato del tempo rispetto ai primi contatti, il marito persevera nella sua crisi. In pratica diversi problemi della coppia vengono scaricati sulla ricerca, rea di distogliere l’attenzione della moglie dalla coppia.

In una condizione di coppia così compromessa e sofferente, il programma d’assistenza, The prisoner of Parkinson deve fermarsi. La Signora non è stata accolta nella ricerca. Ovviamente la non accoglienza non è stata apprezzata dalla donna.

Quando la malattia si rende concreta? Si può veramente definire malato quella persona (o anche coppia) dove la sofferenza fisica condiziona il comportamento. Finchè il dolore (fisico come morale) non intacca il comportamento, il paziente è un prigioniero. Ovvero una mente sana in un corpo malato. Nel momento in cui invece, il modo d’agire della persona è colpito, la sociologia deve cedere alla medicina. Si potrebbe discutere fino a che punto il comportamento è compromesso identificando il limite d’intervento.

The prisoner of Parkinson è stata studiata per i “prigionieri”. In effetti funziona come riscatto e reazione. Quando questo “riscatto” si traduce in odio e perenne difesa da un immaginario attacco mai avvenuto, cambiano i parametri. La situazione personale e di coppia si compromette richiedendo un intervento medico.

La sociologia con The prisoner of Parkinson potrebbe ancora intervenire. Lo potrebbe fare se considerata una “risposta” alla malattia. In pratica se accolta. E’ come la medicina che si prende nella speranza che faccia effetto.

Grazie a questa infelice esperienza si è potuto stabilire un limite d’intervento alla teoria The prisoner of Parkinson.

Il malato è tale quando il suo comportamento non è più lucido. Cercare altrove la fonte dei propri problemi, per quanto possa essere comune e comprensibile, in questo caso è malefico. Significa aver appositamente capovolto gli ordini di responsabilità.

Il peggio è che la Signora considera quest’azione del marito come espressione immatura, ma sostanziale d’amore. Siamo alla totale confusione! Non ci si accorge che la violenza di risposta alla cura non è simbolo d’amore protettivo verso la moglie.

La violenza, anche se solo verbale, è sempre violenta, sopratutto quando si manifesta nei rapporti civili. Quindi pericolosa per loro stessi. Oggi la reazione è contro la ricerca, domami sarà scaricata tra loro stessi. Questo è un dettaglio che sarà forse noto nella coppia ma non riconosciuto.

Si può a questo punto dire che The prisoner of Parkinson si debba fermare di fronte a casi di questo tipo? Certamente la teoria si arresta come qualsiasi altra scienza che non viene riconosciuta come soluzione. Anche un farmaco, se non percepito come aiuto-soluzione, viene messo da parte.

Torna d’attualità uno dei concetti base della teoria sociologica al Parkinson. Se non c’è riscatto e voglia di guarire o dominare la malattia, non c’è neppure guarigione.

Quando il paziente ha ormai considerato suo ospite la malattia, entra in una dimensione che potrebbe essere di non ritorno. 

Triste ma vero.